Enzo Biagi ci dice che i quattordici mesi della sua Resistenza sono stati i più importanti della sua vita. Cioè quelli che l’hanno formato uomo, cittadino e maestro di pensiero. Quei quattordici mesi, – marzo 44 aprile 45 aggiunti agli altri sei dall’8 settembre 43, sono i più importanti anche per la vita del nostro Paese. Quello è il tempo in cui è iniziata la nostra democrazia e la nostra Repubblica.
In questo libro , curato da Loris Mazzetti, Biagi ci è ancora maestro di verità, come lo è sempre stato nella sua veste di giornalista.
Raccontare la verità è raccontarla tutta, senza accenti e senza ombre. Con quella sua scrittura così poeticamente piana, ci aiuta a comprendere, addirittura a vedere, quelle bande di eroi per caso e combattenti per scelta, finiti sui monti a lottare e a ragionare.
Dice: “Era uno strano combattere, perchè il fronte era ovunque, e i soldati di Hitler arrivavano di giorno e di notte, da tutte le parti, ben equipaggiati, con tante munizioni, con scarpe che non lasciavano passare l’acqua e cappotti che allontanavano il freddo, e se erano feriti avevano medicine, dottori e ospedali. Invece, se un partigiano cadeva prigioniero era un partigiano morto, e guai se restava ferito. I nostri morti non avevano una croce, toccava a noi ricordarci dove erano rimasti. Dentro un argine, su una balza.”
Biagi in queste pagine non racconta soltanto. Ci fa un affresco di tempi e di luoghi. Non si ferma al suo vissuto come un testimone qualsiasi. Biagi va anche dall’altra parte. Va anche al prima e al dopo.
Da testimone ci descrive la tragedia del massacro di Marzabotto, cioè di quelle frazioncine casolari e chiesette che noi accomuniamo sotto il nome di Marzabotto. E’ un affresco dolente e pietoso che può fare soltanto chi conosce quelle genti, quelle case, i colori, gli odori. E’ il racconto di chi ne ha amato o conosciuto le vittime ed ha ascoltato i superstiti.
Subito dopo, Biagi giornalista ci offre la figura e la versione del colpevole di quell’eccidio, il maggiore Reder, da lui intervistato nel 1969 nel carcere di Gaeta. Ne viene un ritratto agghiacciante, una verità ancora più vera pur se vista dall’altra parte, un soldataccio fanatico messo alle corde dalle semplici domande od osservazioni di un mite e minuto giornalista dalla schiena dritta. A questa intervista si aggiungono quelle a Kappler e a Kesserling , che giustamente trovano posto nel libro. Con Kappler si ricostruisce tutta la concitazione e la fredda ferocia delle Fosse Ardeatine. I fatti, le sequenze, i comprimari, Priebke, Via Tasso, i fascisti, la Roma clandestina e la valle delle cave. Il colonnello Kappler, che ne è l’artefice e capo mai pentito, fuggirà poi dal Celio dentro una valigia nell’agosto dei 77 e morirà libero e riverito in Germania l’anno dopo.
L’incontro con Kesserling, ugualmente raggelante, avvenuto in un piccolo curatissimo giardino di Bad Wiessee, porta Biagi a una severa conclusione. Scrive: “ Guardavo quel generale dai polmoni malati, quel generale così fedele, forse l’ultimo generale di Hitler ancora prigioniero, prigioniero di se stesso, di un mondo che non deve più tornare, di una legge disumana e crudele: la guerra ad ogni costo, fino all’ultimo, l’obbedienza senza dubbi, senza angosce, senza perplessità…..”
Sono pagine avvincenti e da non dimenticare, che ci spiegano meglio di qualsiasi lezione di storia l’assurdità disumana del nazismo e della sua guerra.
Per aiutarci a capire il fascismo e quei giorni, il giornalista Biagi ripercorre anche i mesi del 43, la caduta di Mussolini, le figure dei suoi gerarchi e le sue miserie, la slealtà del re che si vuol pulire le mani e salvare il casato, la piccolezza della repubblichina di Salò, la crudele assurdità del processo di Verona, la tragedia finale e il disgusto di Piazzale Loreto.
Infine, nel libro troviamo anche il dopo, i giorni della vittoria. Biagi ci racconta con immagini sommesse una Bologna irriconoscibile smozzicata nelle mura bombardate, deserta e muta nelle sere dei primissimi giorni di libertà. Così ritroviamo nella memoria le altre nostre città e contrade, ugualmente smozzicate e doloranti e la nostra inconfessata tristezza sommersa dai canti di vittoria. Era il risveglio alla nuova realtà che ci strappava dal tempo della lotta e del dolore per spingerci verso le nuove sofferenze e responsabilità della pace.
Questo spaziare tra gli avvenimenti cruciali di quel tempo, fa di questo libro un vero libro di storia. Qui c’è tutto. Qui la storia arriva al cuore e alla coscienza di tutti. Vorrei che arrivasse nelle scuole, nelle mani dei ragazzi.
Penso che gli insegnanti potrebbero sottolineare diverse frasi degne di essere sottolineate. Al pretino della caserma che “di certo ha benedetto qualche labaro, qualche bandiera” il giovane Biagi dice: “ E i russi, che Dio non ce l’hanno, come andranno a finire?” Ancora:” Noi volevamo salvare delle vite quando tutti volevano ammazzare, noi volevamo consegnare quei prigionieri agli americani. Noi, generazione di condannati, desideravamo solo purezza nell’azione, purezza nelle coscienze, purezza negli intendimenti”. “Siamo stati condannati a soffrire senza colpa.” “ A vent’anni dobbiamo essere già uomini senza conoscere la giovinezza.”
Troviamo molti lampi di umanità. La ragazza rapata, con in braccio il suo bambino, che non si cura degli insulti. La donna vestita di nero che piange in mezzo alla folla festante. Il soldato americano che “non dovrà dire di noi tutti ladri” perchè “non è vero che voialtri siete tutti ubriachi.” Quando la gente ha fame la morale va in crisi.
Voglio aggiungere due note. In questo libro di Biagi ci sono poche donne in primo piano. Mogli e madri si sentono in sottofondo. Ma quella coinquilina signora Ines che ha il coraggio di parlare a Biagi di ingiustizia e di speranza e poi lo avverte e lo aiuta con un documento falso, mi fa ripensare al coraggio di tante donne che hanno parlato, incoraggiato e aiutato, senza alcun obbligo o tornaconto, che poi hanno tanto patito e a volte pagato.
Ultima nota. Ritengo preziosa nel libro, la trascrizione degli articoli de “Il Patriota”il giornale della formazione partigiana di Giustizia e Libertà, redatto in quei mesi da Enzo Biagi. In quelle pagine ci ritrovo un modo di scrivere e di periodare che non ci appartengono più , ma che ci riportano a quella cultura, a quella enfasi retorica che possono strapparci un sorriso, ma che hanno dentro un calore e una passione di cui oggi avremmo nuovamente bisogno.