Cosa è stato il fascismo

Domenica scorsa sono apparsa in Rai, programma “Chesarà”. Non mi sono rivista, ma credo di essermela cavata con dignità. Sono stata coccolata come un rispettabile reperto archeologico. Mi era stato anticipato che avrei dovuto dare una idea di cosa è stato veramente il fascismo.  In realtà i discorsi sono stati tutti diversi, com’è logico in un programma fatto di opinioni sull’attualità e sui problemi mondiali. 

Mi ero preparata un promemoria di nove titoli, che mi auguravo di saper esporre più brevemente possibile, causa i tempi televisivi e le molte voci immaginate nel coro.

Ho già detto che i discorsi sono stati tutti diversi; perciò, cerco di riprendere quel bigliettino con i titoli e spiegarli ora, anche per pro-memoria.

PUNTO UNO. IL MANGANELLO

Il fascismo si è imposto col manganello. cioè col bastone. Violenza, bastonate. Gli esperti in questa arte andavano nei paesi dove non erano conosciuti, guidati da uno del posto. Mio padre ce l’ha raccontato quando aveva novant’anni. Chi subisce certe offese se ne sente talmente sminuito oltraggiato e offeso che non riesce a raccontarlo. Ancor più le donne-ragazze, come la cara Francesca Del Rio, Mimma, che nemmeno dopo settanta anni dalla liberazione non riesce a raccontare le torture patite a Ciano, da prigioniera dei tedeschi. Nonostante Laila che le dice “non sei tu che ti devi vergognare, sono loro”. Forse per la vergogna o forse per la non conoscenza dell’identità dei manganellatori, di queste violenze risulta poco. Del resto all’epoca anche nello stesso paese le persone si conoscevano in modo strano, poco utile a denunce formali. Nei paesi ci si conosceva con i soprannomi, assolutamente diversi da quanto scritto nei registri. I miei nonni e zii materni erano conosciuti come Capitani, ma all’anagrafe erano Arduini. I  Chierici di San Polo erano conosciuti come Cavalieri e i loro lontani parenti soprannominati Gliga mentre nei registri erano anche loro Chierici. Un lontano zio era conosciuto come Gemello ma in realtà si chiamava Fornaciari.

Per quelle bastonate alla schiena il papà di Mimma è morto dopo qualche anno per dirette conseguenze ai polmoni. Sofferenze conosciute, ma mai riconosciute.

ARRESTI.

Per essere arrestati bastava una chiacchiera. Era comparso un volantino sul valore del primo maggio e in tutto il circondario si arrestano tutti quelli che sono sorvegliati come oppositori, cioè non iscritti al fascio. E’ successo a mio padre nel giugno 1932,  lo stesso giorno che è nato  mio fratello. Mio padre era andato in paese a denunciare la nascita e a indicarne il nome. Appena tornato ha trovato i due fascisti che l’hanno arrestato.  Con mamma ancora a letto e la mucca e la terra e io che non avevo ancora cinque anni, mamma che ha dovuto alzarsi e fare tutto, senza nemmeno aver tempo di piangere. E senza prove, papà in galera in camerata con carcerati comuni,  dalla fine di giugno alla  neve di gennaio, scampata tragedia causa amnistia.  Anche senza prove, il destino sarebbe stato condanna al confino, per anni,  isole di Ponza o Ischia o Ventotene.

FERMI IN CASERMA .

Ogni volta che veniva nei paesi un gerarca o che c’era un anniversario da celebrare, cosa che di solito comportava cerimonie. sfilate di giovani e ragazze, discorsi e inni, era consuetudine andare a prelevare gli oppositori, cioè quei due o tre non iscritti al fascio e tenerli chiusi in caserma per qualche giorno o qualche notte. A mio padre succedeva, ed altrettanto ad un simpatico personaggio soprannominato Gilera,  famoso per le barzellette contro Mussolini e per la sua modernissima motocicletta.

LICENZIAMENTI e lavoro.   

Una volta che su insistenza di mia madre, papà era andato al sindacato fascista a chiedere se ci fosse qualche giornata di lavoro, si è sentito rispondere che se non c’era lavoro “per noi fascisti” figurarsi se poteva esserci lavoro per voi “contrari”- E papà  ha aggiunto: “E fortuna che non mi ha fatto bere l’olio di ricino che aveva proprio lì davanti”

Più doloroso il licenziamento, causa “non è dei nostri”.

 Il vicino di casa, ex podestà e presidente del consorzio irriguo, vedendo come mio padre era bravo lavoratore e brava persona, forse impietosito dalla nostra miseria, ha assunto mio padre come dugarolo. Lavoro stagionale, cioè solo estivo perchè è solo d’estate che si fa l’irrigazione.

Dugarolo è quello che tiene puliti i fossi e alza le “dughe” cioè le paratie che fanno andare l’acqua a turno nei vari poderi. Quindi è lavoro quasi tutto di notte. Mamma e papà erano contenti, perchè significava un po’ di soldini, un po’ di aiuto. Papà è andato con volontà e fiducia,  ma dopo quattro giorni il “cavaliere” viene nel sentiero davanti a casa   con aria sgomenta-addolorata-spaventata, con una lettera che gli è arrivata dai caporioni fascisti, dove gli si ordina di licenziare quel Vergalli, con la motivazione precisa, perchè è persona non iscritta al fascio. 

Al suo posto è poi stato assunto un tizio di una frazione vicina, che era stato tra i primi fanatici del duce.

I SABATI FASCISTI.

Il   sabato tutti i giovani erano obbligati ad andare ai ” sabati fascisti”, cioè a presentarsi ad una sede da dove venivano inquadrati e addestrati alle arti militari. Possibilmente dovevano presentarsi in divisa e credo sempre coi calzoni corti, stagione adatta o meno. Ovviamente i fucili da esercitazione erano falsi, a volte modellini di legno. ma la dottrina guerresca era sempre la più feroce e retorica, supremazia nostra e inferiorità delle altre razze. Se qualcuno, causa contrarietà ideale o addirittura motivi di lavoro , non si presentava a questo rito, veniva rintracciato  intimidito e controllato. Quindi non si scappava, credo dai quattordici anni in avanti. 

Per  le donne non ricordo se c’era un obbligo simile. Ricordo che alcuni sabati pomeriggio eravamo a scuola senza grembiule e la maestra ci aveva insegnato il punto a croce.

LE TASSE SCOLASTICHE.

Erano previsti alcuni premi per merito scolastico. Quando finalmente ho potuto frequentare  le magistrali regolarmente, ho ottenuto un buon esito, media del sette e mezzo. Era previsto il diritto di esenzione dalle tasse nell’anno successivo. Nella pagella, dove venivano anche registrati i pagamenti trimestrali,  risulta scritto, vicino alla cifra versata “per esonero parziale”. Significa che per merito avrei dovuto non pagare nulla, ma mi veniva ridotta la tassa di frequenza solo della metà perchè non di famiglia numerosa e non figlia di iscritto al fascio.  Insomma, non si era  tutti uguali’

FILM, LIBRI, PUBBLICITA’

Il fascismo ha sfruttato subito e al massimo le opportunità dei nuovi mezzi di informazione. Il cinema, non solo per i film apertamente schierati, ma per i documentari dell’Istituto Luce, proiettati obbligatoriamente prima e dopo i film e anche nelle cerimonie. Senza contare i manifesti, i giornali radio, le cerimonie e i saggi ginnici, tutte occasioni di discorsi, premiazioni, e addirittura obblighi, come quello della donazione dell’oro, cioè obbligo di regalare la fede nuziale alla patria, per poter fare la guerra.

Era possibile imporre ogni obbligo, come la consegna di oggetti di rame o di cancellate di ferro.

Con la retorica, la censura e il controllo poliziesco si faceva credere ogni fandonia. Con la crudeltà era ancora più tragico il peso del potere. Basta pensare alla fucilazione dei sette fratelli Cervi, sette fratelli tutti insieme senza processo, di nascosto, sette fratelli comunisti e cattolici. E dalle mie parti, anche fucilato alla schiena, un timido coraggiosissimo prete partigiano originario del mio paese, don Pasquino Borghi, nome di battaglia Libertario.

Carità e colonie

Colonia sul Po’, Guastalla, 1931 Touring Club Italiano

Il duce ha fatto anche delle cose buone. Così dicono i nostalgici.

Per esempio, la carità e le colonie.

La carità a scuola negli anni Trenta significava che la maestra controllava con aria schifata ma ugualmente decisa, la pulizia delle orecchie e la presenza di odiosi ospiti tra i capelli di alcuni scolari che di solito stavano negli ultimi banchi. Dopo un po’, cioè dopo qualche giorno di assenza, quei ragazzi comparivano con aspetto nuovo, cioè con le teste rasate e l’aria un po’ più strafottente o un po’ più vergognosa. Più importante era l’olio di merluzzo. Agli scolari più gracili, il fascismo imponeva l’olio di merluzzo, considerato il toccasana per dare forza e vigore. Erano gli anni Trenta e nel mio ricordo c’ero solo io ad avere questo privilegio! La mia maestra me ne “offriva” un cucchiaio tutti i giorni, e pietosamente alleggeriva quella pena o evitava un esito disastroso, offrendomi una mezza fetta di arancio che comprava di tasca sua. Era una tortura. Insomma, il fascismo non mi voleva così magrolina e pallidina, ma sperava di avermi vigorosa e prolifica donna fascista da schierare nelle cerimonie o da premiare con qualche soldo all’arrivo del settimo figlio da mandare in guerra per la patria.

Più importanti e più impegnative erano le colonie. Credo che anche quelle fossero indicate come a favore dei più poveri, ma non ne sono sicura. Sempre grazie alla mia cara maestra Ester, sono stata accolta in una colonia marina a Riccione, mare Adriatico. Come mi abbia fatto accettare nascondendo la condizione di antifascista di mio padre, cioè di non-iscritto al fascio, è un grandissimo merito al mio giudizio di oggi. Fatto sta che mi rivedo sul treno quando con un grido “il mare, il mare!” ci affollavamo ai finestrini per vedere quella striscia biancastra e immobile che era il mare e a me sembrava soltanto strano e senza colore. Dovevo essere in terza, cioè molto piccola. C’è la foto di gruppo dove io sono la prima in basso a destra e dove anche in bianco e nero si vede che sono pallida più di tutti. Ricordo che il sole mi aveva scottato le spalle e che la signorina, obbligata a mettermi alle ore di cura del sole come tutti, mi copriva le spalle col suo fazzoletto, impietosita dalla mia scottatura. Di quella colonia marina conservo stranamente alcune scene. Intanto lo schifo del latte della colazione mattutina, perché quel latte colorato con un po’ di orzo, aveva le “pelli”, cioè vi si formava quel grasso coagulato che a me faceva tanto schifo. Non so come posso aver rimediato. Probabilmente col rifiuto, cioè digiuno ossia prima colazione con solo il pane. Altro ricordo è di quando all’arrivo si invitarono tutti a consegnare gli eventuali dolci o alimenti portati da casa. Con mia meraviglia alcune ragazze avevano dei pezzi di ciambella. Pensate, ciambelle! Allora io ho pensato che lì non fossimo tutti figli di poveri. Per me chi poteva permettersi di avere ciambelle non poteva essere povero. Nella grande sala dormitorio io ero al primo letto, subito dopo quello della signorina sorvegliante. Ad un controllo serale ricordo che sono state trovare nelle borse o valigie di alcune bambine delle fette di ciambella, probabilmente già andate a male. Mi rivedo rannicchiata e tristissima, ma sapevo di non dovermi lamentare; quindi, non ricordo di avere mai pianto. Ancora due piccoli ricordi di quella esperienza marittima. A metà soggiorno era consentito ai genitori di venire in visita. Arrivarono, a sorpresa, alcuni genitori. Ricordo la mia meraviglia. Possibile che qualcuno da Reggio potesse venire fino a Riccione? Un simile spreco o lusso, smentiva qualsiasi ipotesi di povertà. Ultimo ricordo. Al ritorno i familiari ci dovevano venire a prendere a Reggio città. Invece di qualcuno di famiglia mi sono vista chiamata da persone quasi sconosciute. Erano venditori ambulanti di stoffe che avevo visto forse in piazza o alla fiera. Sul biroccino pieno di fagotti, accucciata stretta stretta sul sedile, sono stata portata fino a Bibbiano, venti chilometri circa, e precisamente alla frazione Travagliola, alla casa del nonno e degli zii, dove mia cugina Maria, sempre impicciona e pettegola. ha esclamato: “come sei nera”. E non mi ha fatto piacere. Da lì, quasi subito e prima di sera uno degli zii mi ha messo sulla canna della bicicletta e mi ha portato a casa, che era ancora in frazione Ghilga, zona Madonna di San Polo.

Altra meravigliosa benefica realizzazione è stata la colonia elioterapica allestita al lido di San Polo, sul greto dell’Enza. Anche lì vi sono stata ammessa per merito della maestra Bedocchi. Ricordo il bellissimo costume per prendere il sole che ci è stato regalato. So di averlo indossato anche negli anni seguenti, fino a che le misure sono state compatibili. Era un carinissimo pagliaccetto, a quadrettini rosa, coi pantaloni arricciati in elastico, una bella pettorina e le bretelle incrociate sulla schiena. In effetti, fare la cura del sole con quel pagliaccetto non lasciava esposta troppa pelle. Infatti, non ricordo scottature, forse perché anche mia madre mi obbligava a prendere il sole nella spianata oltre l’orto. Ma in quella colonia alla sponda del fiume Enza ricordo con tristezza un’altra avventura, cioè una recita-festa finale alla quale erano invitati genitori e gente. Naturalmente ero coinvolta anch’io. C’era una parte da imparare a memoria e naturalmente era inevitabile che fossi scelta dall’inizio. Tutto normale fino all’ultime prove e alla recita vera. Le altre bambine indossavano tutte dei bellissimi abiti coloratissimi. C’erano tutti i colori, invece io avevo il mio grembiule scolastico, tutto nero, senza nemmeno quel bel colletto bianco. Si celebravano i colori, infatti le altre bambine indossavano abiti di seta e di taffetà a volte belli e coloratissimi, ognuno presentato con la sua cantilenante filastrocca. Alla fine, il colore trionfante era il nero così serio, così mussoliniano, così glorioso. Soltanto allora mi sono resa conto del significato di quella recita. Pur così piccola ho sentito la assurdità e la stranezza di tutti quegli applausi che mi sommergevano. E io immobile, con quella mia faccia triste. Avranno pensato che fossi brava a imparare a memoria, ma che proprio non sapevo recitare. Di certo ero confusa, ma so di essermi rallegrata dell’assenza dei miei genitori. In luglio o agosto in campagna ci sono troppi lavori da fare. Credo che non siano mai venuti a vedere il luogo né ad accompagnarmi. In verità noi bambini andavamo sempre da soli, anche su percorsi sconosciuti, perché sapevamo chiedere oppure sapevamo arrangiarci. Poi quella strana brutta parola “elioterapica”! Non poteva bastare “colonia estiva” o colonia solare? O almeno spiegarci che derivava da “Elio”, cioè Sole?

In video collegamento

Mercoledì scorso, 21 febbraio, mi sono collegata con otto classi dell’istituto Alessandro Severo di Roma, quartiere San Paolo.

Scuola media, gli studenti più grandi, età attorno ai tredici o quattordici anni. Preparati. Avevano consultato le pagine del mio ultimo libro e addirittura anche di quello precedente. Mi chiedo sempre come questi giovanissimi possano immaginare quell’epoca lontana, così diversa, così incredibile. Per di più deve essere proprio deprimente vedere una vecchietta dai capelli bianchi, non di persona, ma su uno schermo. Volonterosi quei ragazzi e ragazze, bravissimi quegli insegnanti, quelle insegnanti. Si chiamano Milena, Laura, Ilaria, Marco, Maria Teresa. Le domande preparate erano tante, quelle alle quali ho risposto sono state un bel po’. Spero solo di essermi fatta capire.

All’epoca di cui parlavamo avevo quasi la loro età o pochi mesi in più. Mi hanno chiesto della paura. Spero di aver spiegato che la paura era un lusso che ci poteva assalire soltanto poche volte. Non so come possano immaginare un mondo senza telefonini e nemmeno telefoni, biciclette pesanti spesso con le gomme a terra, il coprifuoco e i posti di blocco improvvisi, e la morte sempre attorno, vicina e vera.

Forse riuscirò a rivedere la registrazione delle mie risposte. Spero di aver raccontato la cattiveria del fascismo, non solo per il carcere immotivato inflitto a mio padre e patito da mia madre, ma per la miseria, la fame e il freddo le fandonie belliciste, e le bugie così utili ad ingannare il popolo e a fare le guerre.

Purtroppo, il riferimento all’oggi è facile. Il diritto all’informazione, a conoscere i fatti e i retroscena. L’assurdità delle guerre così vicine e incredibili, la possibilità di dissentire, il diritto di costruirsi il futuro. Che per queste ragazze e ragazzi è proprio vicino, vicinissimo. Vorrei abbracciarli davvero, questi giovanissimi, non per immagine, ma con le braccia. E mi faccio coraggio, per loro e per i miei nipoti e nipotino. Nella convinzione della potenza delle piazze, delle parole, delle arrabbiature, delle idee. E a suo tempo di quell’arma potentissima e silenziosa che è il voto.

Veleni nascosti e dolore in più

Avevo intenzione di parlare di veleni nascosti quando è arrivata la valanga dei dolori scottanti. Metterò per primi i dolori scottanti: cioè le tre guerre in Ucraina Palestina e Mar Rosso, la morte di Navalny, i poveri operai schiacciati sotto il crollo di Firenze.

Pensare a queste realtà sarebbe sufficiente per mettersi a piangere per giorni interi, eppure per sopravvivere o perché ci sono tutte le piccole indispensabili cose da fare, si va avanti, si sopporta. Parlerò solo per me, che da un po’ rimugino una considerazione su alcuni programmi “dei nostri schermi”, tanto velenosi da apparire innocenti e addirittura divertenti. Per primo all’inizio di serata quella gara, con scatoloni contenenti un numero, concorrenti scelti chissà come ma volontari e numerosissimi. Il veleno che io ci vedo è che per vincere non occorre nessun merito, nessuna conoscenza, o competenza o abilità. Tutto è affidato al caso, anzi quasi sempre ad una vera e propria superstizione sulla bontà o cattiveria di un numero. In effetti c’è l’esaltazione del caso, chiamato addirittura fortuna, che in altre parole è superstizione. 

Credo che non ci sia niente di più stupido della superstizione. Per un periodo della mia vita scrivevo delle lettere per un direttore che non le firmava e dovevo riscrivere se la data era di un venerdì!  Dovevo, dovevamo, mettere la data del giorno prima o del giorno dopo, perché il venerdì “portava male”. Giuro che è vero. Eppure, quel direttore era laureato, pluri-promosso, apprezzato e all’apice della carriera. Come si fa a credere a simili stupidità? E appassionarsi allo spettacolo tutto affidato al caso?  In sostanza ho timore che si voglia valorizzare la superstizione, cioè il numero che ti porta bene, addirittura a creare una superstizione personale, quel numero di una certa data, di un certo ricordo! Ma per vincere un briciolo di merito dove è?

Non molto tempo fa all’inizio di serata, condotto da Amadeus, c’era una specie di gara sempre con vittorie in gettoni d’oro, dove ai concorrenti si chiedevano alcune conoscenze o competenze, non troppo difficili in verità. Ma c’era pur sempre una parvenza di merito. Questa gara attuale ha anche un volume e una procedura certamente molto costosa per la Rai, numero di “banchisti” prove, pubblico e non so che altro.

Sempre sulla Rai, cioè sui “nostri schermi” una volta alla settimana c’è qualcosa che si chiama “Tali e quali”. Non so chi possa sopportarlo. Ci sono concorrenti sconosciuti che debbono imitare cantanti famosi in canzoni famose. È premiato chi imita meglio. Ho intravisto addirittura dei camuffamenti e trucchi per assomigliare anche fisicamente a Modugno o a Mina.  Da semplice spettatrice credo di ricordare che gli interpreti non debbano “copiare”, ma interpretare! Ogni canzone, specie se è bella, non può avere una sola voce, un solo tono, un solo sorriso.  Ogni cantante e persino ogni persona, la può e la deve interpretare, cioè metterci il suo cuore, la sua emozione, il suo soffio personale, intimo, il suo accento. Come in tante altre vicende della vita non si deve copiare, ma ricreare, rifare, personalizzare. Forse la Rai, cioè chi la dirige, desidera un pubblico, cioè un popolo, di imitatori acritici, di gente che aderisce ad un modello, che non ha niente di suo da mettere in più o diversamente. Pensate a tutti i valori a tutte le verità di cui abbiamo bisogno e vi verrà la pelle d’oca a pensarli tutti inghiottiti, assorbiti e accettati tali e quali per sempre. O almeno il più a lungo possibile.

Insopportabile televisione

SANREMO, ITALY – FEBRUARY 06: Loredana Bertè attends the 74th Sanremo Music Festival 2024 at Teatro Ariston on February 06, 2024 in Sanremo, Italy. (Photo by Daniele Venturelli/Daniele Venturelli/Getty Images )

Abbiamo tutti simpatie e antipatie, nella vita e nei personaggi o programmi televisivi.

Da un po’ mi accorgo che quello che era indifferenza sta diventando antipatia, disprezzo, disgusto. Mi riferisco alla televisione che in questo nostro mondo dell’immagine ha ancora un grande peso. Poi la mia parte “civile” mi fa una domanda: “cosa mi ha fatto di male questa persona (attore, conduttore, politico, ecc.) per essermi così insopportabile, così disprezzabile, così condannabile? Debbo rispondere che il male non lo fa a me personalmente, ma alla verità, alla imparzialità, alla giustizia o addirittura al buon gusto. Quasi sempre al diritto di informazione che è alla base del nostro vivere democratico, nato dalle fatiche e dai dolori che ho visto personalmente da ragazza.

Non voglio riferirmi alla rete, che conosco poco e poco me ne servo. La televisione fa ancora la parte più importante. Basta guardare al fenomeno Sanremo. Io non lo guardo, anche se apprezzo e amo la musica sia in forma alta, classica o storica, che leggera, canzoni o stornelli. Di musica l’umanità ha bisogno, è una forma di cultura che ha il potere di farci star bene, Ma questa carnevalata televisiva non solo mi disgusta ma mi fa dubitare e riflettere amaramente, su singole persone che su fenomeni generali.

Intanto l’invasione.

Io che non guardo le serate, ugualmente so tutto, perché tutto il resto televisivo ne ripete e commenta. Non si scappa. E qui ritorno alle mie antipatie. Non dirò mai i nomi o i programmi che non sopporto da poco tempo o da tanto tempo. Dirò che su Rai mi resta in Raitre alla sera il “caro Marziano” di Pif e la scheggia luminosa di “il cavallo e la torre” di Marco Damilano, diventato amico da quando mi ha contattato mesi fa. Mi resta anche Geo, sebbene mi abbia ormai insegnato tutti i modi di fare il formaggio. Dei telegiornali non voglio giudicare, perché bisogna pur sceglierne uno se si vogliono le notizie. Spero che ritorni “Via dei matti” da cui imparavo qualcosa sul mondo della musica. A volte ci sono documentari interessanti qua e là, Più in là, direi, visto che vado sempre su reti non Rai: Fabio Fazio sulla Nove e su la Sette molto di ciò che resta: “di martedi” di Floris. Vi si è aggiunto con le sue “Parole” e il raggrinzito grande Vecchioni, il bravo Gramellini. In più c’è anche Corrado Augias, a volte troppo serioso ma sempre importante.

Mettetevi un po’ nei miei panni. Faccio fatica a leggere, tanto che spesso mi devo aiutare con una lente. Come tutti i vecchi che ancora sono svegli, casco spesso a cercare in tv, dove posso, visto che in reti “difficili” come Sky o sulle piattaforme come Netflix non riesco ad andare. Una delle sere sanremesi ho trovato un vecchio filmato che ricostruiva con verità la immane tragedia del Vajont. Sarebbe saggio evitare cose tristi, ma a volte non riesco a scappare.

L’altra opzione sarebbe stato un filmato sugli ultimi giorni di Hitler. Bella scelta, ammetterete. Giusta – si fa per dire – la seria e veritiera ricostruzione di quella tragedia. Alla fine, per curiosità e ancora commossa e piena di tristezza su quei veri e impuniti colpevoli, passo su RaiUno e da Sanremo mi appare un bel primo piano della Loredana Bertè coi suoi capelli blu e quella vivace gonnellina che ne mostra le gambe fin su, poco oltre l’inguine! Giuro che non l’ho fatto apposta, cioè con coscienza, ma il mio cervello ha fatto un tuffo, ha proprio detto un NOOO e istintivamente ha spento tutto. Salvo riaccendere poco dopo. La Bertè canta bene e ha diritto di acconciarsi come le va, come crede che le convenga. Ma io ho il diritto di schifarmi, di immaginarla vestita meglio. ricca solo dei suoi tesori, voce, competenza, conoscenza. Mi dispiace sentirmi vecchia e fuori tempo, ma per fortuna ho ancora la possibilità di giudicare, di rattristarmi o di gioire. Limitatamente, anche di scegliere. Oppure di decidere la sera dopo, di vedermi l’ultimo atto di Sanremo, anche se non tutto. Grande carnevale, a volte indovinato, a volte grattugioso, urticante con la realtà esterna, dove piove e incombono trattori irosi, freddo, discussioni, fango, e notizie di bombe, cadaveri, e bimbi affamati a piedi nudi nella fanghiglia. Addirittura, ormai affagottati dentro quelle file di teli bianchi. Terribili, da non credere. L’umanità non ha giudizio né potere. La folla è sempre pronta a farsi ingannare o addormentare. Perciò le guerre sono ancora e sempre possibili. E vicine, oggi, Sanremo o non Sanremo!

Per il mio libro

ll mio ultimo libro “Una vita partigiana” non ha di certo buona vita in questi tempi di vannacciate e saluti romani. Tuttavia, da una strada tortuosa e per me sconosciuta, è arrivata una presentazione bellissima. In una ampia sala della Biblioteca Nazionale, si sono accalcati più di due centinaia di ragazzi e ragazze delle ultime classi di due istituti superiori. Molti avevano già il libro ed erano pronti a intervenire e a chiedere. Bella e vera giornata della memoria!

Grazie al Direttore della grande  Biblioteca e grazie al giornalista Marco Damilano per gli interventi e la conduzione. Grazie alle dirigenti scolastiche e insegnanti che hanno resa viva e vera questa giornata della memoria. Non dovrei essere io a dirlo, ma pare che le mie parole di risposta e commento siano state buone e chiare.

Alla faccia delle mie novantasei primavere!

E infine, un abbraccio e un caldo  ringraziamento alla  cara professoressa Titti Laudenzi, per le belle parole in conferenza, ma soprattutto per  il precedente impegno al mio fianco.

Cibi e miserie: 1944-1945

Mi sono impegnata a ricordare come e cosa potevamo mangiare da partigiani in montagna. Ho raccontato la scena di quando il comandante Sbafi, l’allegro Sbafi, il coraggioso Sbafi, in quella piccola stanza montanara,  offriva i suoi grassi e numerosi pidocchi alla padella dove una montanara stava friggendo qualcosa. Si rideva amaro, dopo i mesi seppelliti nella neve e un po’ anche nello scoraggiamento. Di sicuro non c’ero quando quella frittura è stata distribuita tra quei ragazzi. Me ne ricorderei, perché sono sempre stata schifiltosa e da giovane lo ero anche di più.

Laila mi ha raccontato di un ragazzo preso dalla disperazione e di non avere nemmeno la possibilità di una camomilla calda. La  vera camomilla, quella ancora erba,  si poteva trovare anche lì fuori, gelata e rinsecchita  sotto il metro di neve. Ma loro erano in una miserella scuola , avevano solo delle coperte per terra e quella piccola stufetta inadeguata, con la poca legna da accendervi.  Si combatteva  il freddo anche con i progetti di trasferte in pianura per attacchi a caserme  o  ai magazzini del formaggio e della farina.
Noi ragazze alloggiate a Vetto nella casa  delle addette alla propaganda non so cosa mangiavamo. Ricordo appena le dure e scure pagnotte di pane senza sale.   

Ricordo invece  l’episodio della gallina in brodo. Eravamo già nel 1945, forse febbraio, forse marzo.
Dal comando, a sorpresa, ci arriva una gallina! Addirittura! Già spennata, un po’ piccola, ma meravigliosa, sorprendente, inaspettata. Poi la scoperta. Arriva l’Edmea, che ci poteva essere mamma, e si accorge che quella povera gallinella era stata messa a bollire senza prima averle tolte le interiora, cioè le budella!  La ragazza che era di turno quel giorno era stata bravissima: aveva trovato pentola acqua e sale, più il carbone per accendere il fornello, Ma forse era la prima volta  in vita sua che aveva qualche mansione in cucina. Edmea ha rimediato, e  la cosa più difficile è stata trovare il sale, che in quel tempo era introvabile, razionato e prezioso. Di  sicuro l’abbiamo mangiata quella gallina, magari  in tempi diversi, porzioni piccole per le  tante bocche che eravamo. Non ricordo piatti o scodelle, chissà. In quell’appartamento vuoto, c’erano soltanto dei materassi per terra e delle coperte militari. E quel fornello di pietra, da accendere con carbone o con legna piccola. Non credo che potessimo mangiare tutte insieme, in compagnia. Eravamo incaricate della propaganda e ogni giorno andavamo in luoghi diversi ad incontri diversi, con diversi ragazzi o diversi contadini e  diverse donnette tristi.

Cosa mangiavano i montanari?  Già il pane di farina era un lusso. Di sicuro non bianco, ma con aggiunte di cruschello e crusca, oppure con farina di castagna- Le castagne erano la salvezza. Secche e bollite. Buonissime. Poi in polenta, che così saporita non chiedeva condimento. Di sicuro ciò che si trovava nei boschi, funghi, erbe, bacche, radici, tutte cose condite con niente e talvolta addirittura  cotte. La legna da ardere nei boschi chiedeva solo fatica  cioè  taglio e trasporto.

Nelle formazioni partigiane c’era sempre un intendente o cuciniere che trovava il  modo di nutrire tutti. Quasi sempre erano i montanari a fornire il necessario, e il più delle volte  non si poteva pagare il prelievo di piccoli animali, caciottine, castagne, cipolle, capretti. Si rilasciavano delle ricevute da saldare a guerra finita. Non ricordo  molto di quei mesi. Nelle ultime settimane, quelle della battaglia decisiva e della  marcia continua verso la pianura, ricordo che in una sosta ci fu una sorpresa. C’era carne e brodo. Anch’io in
fila, ma quel primo boccone non l’ho  nemmeno inghiottito, nonostante la fame e la stanchezza. Era carne di pecora, ancora dura e per giunta cotta senza sale. Non so come quei ragazzi partigiani attorno a me, sia pure a fatica, potessero mangiarla. In quell’inverno ci si nutriva del formaggio reggiano che arrivava dalla pianura.  Ho raccontato come
le squadre di pianura riuscivano a svuotare i magazzini di invecchiamento per impedire ai tedeschi di portarlo via. Tutto quel formaggio, così  ricco di calorie ma troppo solo, ti metteva terribile sete e ti infiammava bocca e gengive.
Ho anche il ricordo di quella scatoletta arrivata dal cielo con misteriose scritte in inglese. Ero con Zanti e sua figlia Carmen a Montefiorino. Non siamo stati capaci di aprirla, quindi non so che cibo fosse, che aspetto o che sapore avesse. Ci siamo accontentati soltanto di quel pane nero, raffermo e sciapo che avevamo comprato in paese.

Ho detto comprato,  Ricordo il percorso di strada in strada. E il pagamento! Ecco, strano, ma avevamo anche qualche soldo, portato da casa, scarso e salvifico.

Accanto vi metto un ricordo mai raccontato. Dopo essere stata ospitata da quel contadino di Scandiano, quando stavo per andare al trenino, mattino presto,  io volevo pagare il
disturbo e chiedevo quanto. Quel contadino così simile ai miei zii, non voleva nulla, mentre io insistevo. Alla fine, mentre lui si avviava alle mucche, ho lasciato sul tavolo, all’angolo, un po’ di denaro. Non so quanto. E non so immaginare come posso essere arrivata ad una valutazione del debito, con la mia inesperienza e i miei sedici anni. A guerra finita avrei dovuto cercare quella casa e quel contadino e magari rimediare. Anche questo è uno degli sbagli del mio dopoguerra.

Cognomi e grandi orchestre

Da poco è stata modificata la procedura sul cognome da attribuire ai nuovi nati. Non mi sembra molto razionale, da quello che ne so. Non ho nemmeno chiesto se la regola è in vigore e come abbiano ragionato i genitori nell’attribuire il cognome al mio bellissimo e carissimo bisnipotino.  Ricordo invece con chiarezza che al Ministero prima e a scuola poi, io mi firmavo Vergalli sebbene fosse doveroso firmarsi col cognome del marito. Il segretario che era burbero e antipatico qualche volta mi rimproverava, ma io non perdevo tempo a contestarlo, e continuavo.  Ancora prima questa regola la dovevamo mettere in pratica. Per un breve periodo ero distaccata a Novara all’ufficio che tra l’altro rilasciava le tessere ferroviarie per diritto agli sconti agli insegnanti. Le destinatarie erano quasi tutte donne e quasi tutte sposate, quindi con due cognomi. Dovevamo compilare quei tesserini con inchiostro indelebile su moduli verdolini dove non potevano esserci correzioni . Lo spazio era poco e avevamo trovato il modo di provare su fac-simili quando i nomi e cognomi erano troppo lunghi. Così: nome di battesimo poi cognome da maritata e in seguito la dicitura “nata” e cognome di nascita. Ricordo il  dramma quando una collega era  vedova e risposata.  Abbiamo dovuto scrivere .”Maria Rossi, ved. Bianchi, nata Verdi”  Immaginate nomi meno brevi scritti appiccicati  su due righe. Di quei tesserini ne ho ancora una copia rilasciata dal provveditorato agli studi di Roma il 21 settembre 1983. E’ rilasciata ad una certa Vergalli in Truffi Teresa. Dentro, accanto alla foto mi firmavo “Teresa Vergalli  in Truffi”. Direi che c’era un po’ di confusione sotto il cielo. Nei passaporti che ancora ho, trovo Vergalli ved.Truffi Teresa sia nel  1996 che nel 2002, e finalmente nel 2007,  soltanto Vergalli Teresa . Non so se è il caso di riderci o di rifletterci. So, però, che sembra una piccola cosa, ma è importante.  Per il simbolo: paternità prevalente cioè superiore, oppure parità? Alberi genealogici? Proprietà, ereditarietà? Famiglie amichevoli o contrapposte? Nomi che evocano significati, o mestieri, e che suonano bene?  Insomma, a me sembra che il diritto di scelta condivisa sia una buona cosa.  Sulla facoltà di mettere i due cognomi ho qualche dubbio.

Sono tornata all’insegnamento nel 1976 e sono certa di aver sempre firmato col mio cognome di nascita. Per orgoglio cocciuto e anche perché mio marito aveva ruoli importanti nell’INPS e nel sindacato e ne volevo tenere  riserbo. Al Ministero ero sempre nelle segreterie particolari, dove i registri delle firme o non c’erano o restavano in quelle stesse stanze. Sembra un privilegio, ma era pagato con la elasticità degli orari, cioè a volte si restava molto dopo le 14 oppure al pomeriggio, gli straordinari non avevano fine, se il ministro o un sottosegretario volevano la copia di un atto o dovevano trovare ben scritta una risposta ad interrogazione parlamentare. Oppure perché dimenticavano  che  tu eri là nullafacente ad aspettare che qualcuno si ricordasse di dirti che potevi andare.

Ho ripensato a queste cose l’altro giorno alle scene riprese a Pesaro che diventa capitale della cultura. 

C’era una orchestra importante tutta di donne.

Le  orchestre sinfoniche o classiche nella mia vita hanno avuto una strana e circoscritta importanza. A differenza dei miei figli che erano sempre immersi nella musica, classica o giovane, io da stonata e da incompetente, non ho mai dato molto peso a quest’arte, anche se ai miei scolari con qualche aiuto ho fatto imparare e cantare sia l’inno nazionale che il va pensiero. Più gli stornelli romaneschi.

Da molti anni, invece, ho preso l’abitudine di aspettare ed ascoltare il concerto di capodanno da Vienna, direttori vari, programmi vari. Mi incuriosiscono i vari strumenti e i vari suonatori. Solo dopo qualche anno mi sono accorta che non c’erano donne tra quei suonatori. Nemmeno all’arpa, o ai violini. Poi ho saputo che, finalmente, dopo molte vivaci polemiche di pubblico e critici, la regola che intimava a quel consesso di essere esclusivamente maschile, cominciava di anno in anno ad essere cancellata. Cominciarono piano piano  a comparire le donne musiciste. E io cominciai di anno in anno a cercarle notando purtroppo che erano sempre  poche.  Poi ho visto che ci sono donne che dirigono quelle grandi orchestre  e sono pure brave.

Ecco che l’altro giorno, dietro ad una direttrice donna giovane e carina, mi accingevo come d’abitudine ad individuare e contare i visi femminili.  E vedevo tante donne! Anzi, TUTTE donne!!!!  Una intera orchestra, con tutti gli strumenti, anche i  più imponenti o pesanti.  Ne sono rimasta entusiasta.  Qualcuno, poi, l’ha sottolineato e raccontato.

Io, stonata, poco competente e poco informata , ne sono stata e ne sono felice, felicissima.

E chissà perchè mi sono ricordata dei cognomi e delle firme. Insomma, è il cammino delle donne, ancora recente, ancora lungo

Però sulle orchestre, d’ora in avanti, siccome la musica è uno sport per tutte le età e tutti i sessi, ho l’augurio di vedere sempre uomini e donne insieme, giovani e meno giovani, magri o cicciuti, belli e meno belli. E tutti bravissimi.

Torta da seminare e uova da frullare

Quando era festa grande, ma non a Natale, perché troppo freddo, io e mio fratello  andavamo alcuni giorni a casa del nonno, o più precisamente eravamo accolti dalla favolosa zia Dirce.  Ci portavano avanti e indietro uno alla volta, perché il mezzo di trasporto era la bicicletta: a cavallo sulla canna e mani attaccate al manubrio   se la bici era da uomo, oppure in  piedi su  un legno che faceva da appoggio  se la bici era quella di zia.

Una volta  mio fratello, che forse aveva solo tre o quattro anni, fu riportato dallo zio Gigio, o Gigione  Era lo zio Luigi, il  più giovane, alto, allegro e con una bella testa riccioluta. In regalo per mamma, lo zio aveva consegnato a Orio un fagottino con dei semi piccolissimi, fagottino delicato, da tenere in tasca con cura.  Gli aveva spiegato che quei semini   erano semi da torta! Cioè che  le torte si possono seminare nell’orto!

Ci abbiamo riso perché Orio era abbastanza sorpreso, ma così piccolo forse  ci aveva quasi  creduto.  A  casa nostra le torte non erano mai arrivate e conoscevamo solo quelle che zia Dirce cuoceva sul piano del camino con le braci sotto e sopra, grazie a grande tortiera e grande coperchio. Erano sempre fatte di un’ alta base di pasta frolla  con sopra marmellata di uva termarina, più un bel reticolato di listelli  dorati. In quella casa Orio arrivava  sempre per ultimo e questa meraviglia non l’aveva ancora vista.

Loro erano mezzadri  di un padrone discreto che aveva permesso a zia di fare la sarta anche perché azzoppata da un giovanile malanno al ginocchio. Erano in tutto undici persone tra adulti e bambini e all’occasione – cioè quasi sempre –  tutti lavoravano. Anche i piccoli, esclusi i piccolissimi:  alla vendemmia, alla raccolta delle noci, alle mangiatoie delle mucche, a sorveglianze varie e a cura degli animali, e appena grandicelli all’allevamento dei conigli in gabbia  o dei piccioni in colombaia. 

***

Noi, finiti in quella piccola zona di montagna chiamata Ghilga di San Polo, avevamo oltre al camino,  una cucina economica che veniva accesa  raramente. Serviva troppa legna e legna buona.  Il calore lo speravamo dai tanti vestiti sovrapposti e dalla piccolissima stalla, con due mucche e una pecora a fare da termosifone.

Dolci o biscotti nemmeno a pensarci. Già era un lusso il burro e zucchero spalmato sul pane della merenda. In più c’era l’uovo sbattuto con lo zucchero . E che già chiamavamo zabaglione. 

Ecco, avevamo le uova. Preziose, rispettate, Dalla primavera all’autunno le raccoglievamo fresche ogni giorno e fresche mamma cercava di venderle. In inverno ne restava una bella scorta,  immerse in acqua e calce dentro una pignatta di coccio..

Quando frequentavo la quinta che era al centro del paese,  mamma invece di aspettare l’ambulante che passava ogni tanto, ,  si era accordata col fruttivendolo  del paese ed ero io che prima di entrare in classe portavo  quelle uova e portavo a casa quei soldini.   Per un po’ tutto andò bene, fino al brutto giorno quando  mi è stato ordinato di dire a mamma di non portarle più perchè  non erano fresche! Avrei potuto giurare io stessa che le uova erano proprio freschissime. Ma quel tono era troppo duro e io troppo timida.  Era ancora il tempo in cui papà veniva chiuso in caserma ad ogni data importante o ad ogni arrivo di gerarchi e gerarchetti. Forse il fruttivendolo l’aveva saputo e  non voleva aiutare o avere a che fare con un antifascista. O aveva paura.

Stavo parlando di uova. Era papà a farmi zabaglioni. Frullava a lungo,  con un frullino di fil di ferro.  Addirittura aveva comprato un pezzo di cioccolato fondente e ve lo grattugiava per rendermelo più gradito. Anche così io faticavo e soffrivo. A volte addirittura mi sentivo male, stomaco pesante, dolore,  nausea. 

Papà aveva imparato in carcere a fare zabaglioni. Era stato arrestato per antifascismo il giorno dopo la nascita di mio fratello. Io non avevo ancora cinque anni, ma stranamente ricordo la scena di quei due  tizi così corrucciati e papà così serio.  Mamma partoriente si era alzata anzitempo e caricata di tutto, bimbi, stalla, campi. Come abbia fatto in quei mesi, da giugno a gennaio-febbraio, posso solo immaginarlo. Ricordo appena quel fagotto con dentro un piccolino, fagotto a volte dentro una cesta a volte dentro una cassetta della vendemmia. 

Eppure mamma deve essere andata a portare le uova in carcere a papà. Non credo abbia potuto mandare qualcuno. Le uova erano l’unica ricchezza, l’unica possibilità.  Lui ci ha raccontato che aveva costruito un frullino con dei rametti di salice, sbucciati ripiegati e allacciati. Non erano consentiti oggetti di metallo. Papà era esile e magro, anche se robusto. Aveva schifo della sporcizia, della promiscuità, del cibo cattivo, della mancanza di cose fresche , ortaggi, erbe. 

Siamo certi che quelle uova l’hanno salvato.  Grazie alle uova e doppio grazie  a  mamma, che al carcere a Reggio, distante  una ventina dì chilometri, deve esserci andata in bicicletta, con la cesta di Orio sul manubrio  oppure in affanno   per   quella cesta   a casa affidata  a me  .  

Chissà se è da allora che ho compreso il significato della parola dovere. Di sicuro ho sentito cosa è l’affetto. Quindi  grazie, grazie ancora. A tutto e a tutti, uova comprese.

E di più a mamma per il suo eroismo. 

Diario in lontananza

Ai caduti della divisione Acqui

L’altra sera il prof. Alessandro Barbero ha ricostruito su Rai tre la storia della tragedia a Cefalonia e Corfù e mi ha fatto ricordare un piccolo episodio lontano che credo mi leghi a questi luoghi.  Ricordo una lettera di un soldato che doveva essere in quei posti e che probabilmente vi è morto.  Una calligrafia larga abbastanza sicura e verticale nella quale un soldato  si presentava a quella che riteneva una ragazza disposta ad essergli madrina.  Il fascismo  invitava le ragazze a scrivere ai soldati con questa figura inventata di “madrina”, scopo evidente di alleggerire la tensione e  aiutare il morale. A scuola era arrivato questo invito. Non so se all’inizio ho avuto un indirizzo, oppure se mi è stata consegnata addirittura quella lettera  del mio ricordo. Quel giovane si descriveva, alto, robusto, e  non so con che altri particolari.  A fatica e dopo molte letture ho potuto decifrare una parola che non riuscivo  a leggere.  Diceva di avere i capelli “corvini”, cioè neri, molto neri. La stranezza di questo termine mi aveva colpita. Mi chiedevo se si trattasse di una persona istruita. oppure di una zona  d’Italia dove la lingua aveva vocaboli non consueti dalle mie parti. Non ricordo proprio se ho risposto subito e come. . Ricordo solo che sempre ho associato quel soldato alla Grecia, anzi alle località di Cefalonia e Corfù e addirittura alla divisione Acqui. Impossibile che questi nomi fossero nella lettera o negli indirizzi. Era proibito indicare i luoghi e, in caso, la censura li cancellava sotto una bella pennellata di nero. C’era nella lettera una macchia di questo tipo che ho potuto superare, sbiadire o grattar via? O forse, siccome eravamo ormai nel 1943, dalle notizie avute in seguito o da qualche particolare di quella lettera. ho ricollegato  il tutto alla Grecia, Cefalonia o Corfù. Forse nell’indirizzo c’era divisione Acqui? O  numeri e cifre che mio padre o altri capi della resistenza  sapevano individuare? 

Ricordo di avere fatto fatica a rispondere perchè lui si rivolgeva ad una ragazza-donna,  mentre io mi sentivo ragazzina e impreparata ad una amicizia con un uomo adulto.

Ricordo di averne avuto una gran pena, forse  perchè la lettera era triste, forse perchè dai racconti di papà sapevo che la guerra era un dolore e un pericolo. Le divise erano simili alle sue e le montagne forse uguali, quelle sue del 14-18.

Dopo nei mesi seguenti, immersa negli impegni di staffetta e combattente, me ne sono dimenticata e come tanti altri pezzi di carta, anche quella lettera è andata perduta. 

La fede (oro alla patria)

Non mi spiego perché nei ricordi vi siano episodi minimi che si rivedono  con chiarezza. Eravamo negli anni trenta o quaranta,  e le donne erano chiamate a dare l’oro alla patria, cioè l’anello nuziale, la fede. La mia maestra ci aveva guidato scolari e madri fino al teatro. Lei era sempre dolcissima, ma in  divisa da giovane italiana, come cosa ovvia, naturale, inevitabile. In teatro tra musiche e canti era allestita una bella messa in scena.   Sul palcoscenico c’era  un tavolo  con sopra un  grande bacile dentro il quale dovevano essere raccolte le fedi nuziali d’oro e accanto, un più modesto cestino ove già campeggiavano degli anelli di metallo, colore scuro, indefinibile.

Le mamme venivano invitate a salire quei traballanti scalini fino lassù , dove venivano invitate sospinte e a volte aiutate a togliersi l’anello nuziale e faticosamente cercarne uno tra quegli scuri in sostituzione. In mezzo, nelle lungaggini della sceneggiata c’erano canti, poesie di bambini e bambine chiamati al microfono, richieste di grandi battimani che ricordo chiaramente essere stati tutt’altro che grandi. 

Ricordo bene di non essere stata chiamata a recitare qualcosa. Nessuno della mia scuola di frazione ha avuto tale onore.  

La faccia di mia madre non era quella di sempre. Così silenziosa non la riconoscevo. Silenziosa e seria. Non è stata tra quelle costrette a salire quegli scalini e a mettersi in mostra. Ricordo una agitata confusione per velocizzare quella noia, con le maestre che in platea misuravano tante dita indurite e scure, porgevano e sfilavano quei piccoli oggetti, così modesti di aspetto e così importanti di significato. 

Tornando a casa  silenzio e  fretta perchè si era fatto tardi e  la mucca o le mucche erano da “governare” mentre papà stava vangando o falciando chissà dove. 

Negli anni seguenti, che erano gli anni di guerra e di passione, rivedo che quell’anello scuro anneriva anche la pelle di mamma, come se fosse una macchia nella coscienza. 

Un bel giorno, forse a guerra finita, ho ben chiara l’esultanza di mia madre che ci ha fatto vedere che al dito aveva non più quell’orrore, ma un vero anello d’oro! Era  l’anello di sua madre, arrivato a lei non so per quali accordi tra fratelli.

Quell’anello l’ha tenuto un po’ di anni, finchè un giorno le si è spezzato:  Si può spezzare un anello? Certo, se è sottile, miserello, testimone di una storica povertà e della  brutale fatica di donna  contadina.  

Forse l’avete saputo che l’anello nuziale chiamato fede, era imposto solo alle donne, Da dopo la guerra, poco per volta è sopraggiunta l’usanza dell’anello simbolico anche al marito. Usanza che non mi  ha raggiunto, perché anch’io, sposata nel 1948, non ho ricambiato. Infatti mio marito non ha mai avuto al dito quel  cerchietto così piccolo ma così importante, per chi vi dà valore.  A volte, quando lo vedo al dito dei miei figli, penso che anche lì c’è la storia della discriminazione tra uomini e donne; alle donne il dovere della fedeltà, agli uomini il privilegio della supremazia e della impunità. Privilegio ingiusto, da cancellare ancora del tutto, in regalo  alle donne ma grande passo avanti anche per l’altro genere.  Genere umano e basta. 

Tenere la destra

In Italia chi guida deve tenere la destra. Ma non troppo, per evitare di travolgere i pedoni o i ciclisti o le mamme coi bambini nel passeggino. Anche  in queste  ultime consultazioni elettorali, le destre  hanno tenuto la strada, hanno  occupato quasi tutto lo spazio. Il marciapiede a destra-destra,  quello dove avrebbero dovuto correre le sinistre, era quasi deserto. Era deserto, ma è proprio lì che è avvenuto il massacro. Il massacro di qualcuno che non c’era. Sono donna ed è  da una vita – cioè da sei decenni – che mi do da fare per gli ideali di sinistra.  Come posso sentirmi? Delusa, arrabbiata? Furiosa? No, ho allargato le braccia. Me l’aspettavo. Che il Pd ce la facesse non era nemmeno nell’aria. Ma che venisse travolto anche quando le persone, sindaci e amministratori,  sono tanto vicine e i problemi tanto sottocasa, questo sembrava troppo.

E’ vero che  è da un bel po’ che non vado in sezione e non frequento riunioni. Non ho nemmeno votato per scegliere il segretario perché ero  molto raffreddata e i miei figli si sarebbero rifiutati di accompagnarmi, ma sarei stata molto dubbiosa sulla scelta. Essendo donna avrei dovuto scegliere la Elli, ma ero dubbiosa perché non la conoscevo. Del resto la conosco poco anche adesso. Mi chiedo. Perché certe  persone le conosciamo ed altre no. In più, in che modo ci vengono fatte conoscere ? In questo mondo di immagini e di superficialità conosciamo ciò che ci fanno vedere. Cioè dai nostri schermi. Non abbiamo più nemmeno i giornali di parte, dove almeno potevamo leggere un articolo, una lettera, la trascrizione di un intervento.  In sezione non si va più. La mia sezione  è chiusa da mesi, forse anni,  riaperta per le  primarie, ma abbiamo dovuto chiedere se era proprio lì che si votava. Direi che ora non ci resta che piangere. Invece no, non possiamo arrenderci così.

Ci vorrebbe qualcosa che scaldi il cuore. Una volta il SOL DELL’AVVENIR scaldava perché significava diritto alla dignità, diritto a libero sindacato, diritto di  protesta-sciopero-parola-contrattazione. Ora la bandiera di lotta più importante dovrebbe essere l’ambiente, cioè la crisi climatica. Ma in concreto come possiamo fare? La maggioranza ormai abita nelle città. Possiamo mettere più vasi ai balconi o rastrellare e rinverdire i bordi delle strade. Possiamo friggere un po’ di meno e mangiare meno carne, ma poi vogliamo il caldo d’inverno e il fresco d’estate, quindi forza ai termosifoni e ai condizionatori. Vogliamo muoverci ogni giorno e ogni festa, quindi dobbiamo avere la macchina, o magari in famiglia averne  più di una per orari e strade diverse, per autobus che non ci sono e che quando passano li vediamo vuoti. Nella strada qui accanto ci sono scuole di tre livelli, ma alle ore di uscita le strade sono strapiene di auto che vengono a prendere i pargoli ormai baffuti e pettoruti, che sia mai facciano la fatica di imparare a servirsi dei mezzi o ancor meglio  far lavorare le gambe. Se la Elli avesse proclamato l’ideale ambiente o clima avrebbe incontrato il vuoto.

Si è parlato di figli, di famiglia vera e di famiglia inaccettabile. Qui vicino una mia amica ha una figlia bella e brava, dottoressa all’ospedale che   vive con l’amica anche lei  dottoressa ospedaliera. Si sono anche sposate. In più con l’inseminazione assistita hanno messo al mondo un figlio, non in Italia ovviamente. Sono felicissime, il bimbo cresce e ride. Noi che le conosciamo e siamo vicine, ovviamente riteniamo che tutte due abbiano il diritto genitoriale, come padre e madre. Ma le migliaia di persone del quartiere, dell’altra parte di città,  o dei dintorni, o dei Castelli, non possono scaldarsi più di tanto o per nulla. Un diritto così circoscritto e privato non può essere il sol dell’avvenire! Ora c’è il disastro dell’alluvione in Romagna che ci impone di pensare ai torrenti, ai canali e alle frane. Può scaldare i cuori la richiesta di proibire o frenare ogni nuova cementificazione? Quando tante famiglie giovani o meno giovani hanno già i mutui per la  nuova casa, in cantiere o solo in progetto? Decidere di   non costruire più dovrebbe voler dire ristrutturiamo il vecchio, mettiamoci più fantasia, avremo più bellezza e forse meno  paesini spopolati. Anche questo non può somigliare al sol dell’avvenire. Il problema più grosso oggi è la pace. La guerra in questi ultimi otto decenni, ha risparmiato noi europei ma ha lampeggiato ininterrottamente qua e là per il globo. Ora che ci è quasi addosso, invochiamo tutti la pace. Ma che si può fare? Non so se questa guerra    poteva essere prevista e impedita o frenata. Ora c’è, e continua con i suoi morti   e i suoi palazzi sbriciolati e  anneriti. Da quasi subito ci siamo divisi  e  dilaniati. Dare l’aiuto cioè le armi o non darle. Ho già detto che la cosa è tanto brutta e sbagliata che anche qualsiasi risposta è ugualmente brutta e forse sbagliata. Però l’alternativa è diversa. Non dare aiuto all’aggredito in concreto significa aiutare l’aggressore. Dire : “carissimi, ci dispiace, ma dovete farvi uccidere per noi”, ” dovete diventare oppressi affinché noi possiamo continuare ad essere liberi”.  Che poi,  finchè gli aggressori-oppressori vincono, nemmeno i vicini possono sperare  di rimanere  liberi a lungo.

Tornando ai problemi del PD e alla predicazione della Elli e dei capi, portavoce, ex maggiorenti, parlamentari e neo-parlamentari. Questo tema non fa presa anche  perchè si scontra con vecchie incrostazioni ideali. Sotto sotto c’è ancora troppa gente che crede nel paese del socialismo, che magari con qualche magagna, è sempre pur meglio dell’odioso paese capitalista , il paese dei padroni, l’antipatico e ingiusto Stati Uniti.Hai voglia di raccontare che i parenti dei nostri amici che abitano a Mosca quando telefonano non parlano di nulla, non raccontano nulla, sembrano avere qualcuno dietro le spalle che registra ogni parola. Sono irriconoscibili, senza pensieri,senza nulla da dire.Hai voglia di rammaricarti della lontana fiducia in Stalin, di cui avevi un bel manifesto ritratto. Ti ricordano sempre che senza l’URSS di Stalin noi saremmo caduti sotto Hitler. E non puoi che dire forse un  sì. Potremmo però ricordare gli americani, ma anche che un bel contributo l’abbiamo dato pòure noi, specie nell’Italia del nord, con le nostre fastidiose e fantasiose guerriglie partigiane. Insomma, cara Elli, non so se ce la farai ad impedire la scomparsa dell’unico partito di  sinistra, cioè di popolo, di tutti, donne, ragazzi, poveracci e sognatori.Il sogno di una terra-pianeta  più amata. cioè rispettata e salvata. E un po’ più giusta per chi la abita.

Guerra. 25 aprile

Guerra!  Da non credere. Eppure continua. Eppure ci riguarda.

Non solo per solidarietà o per simpatia, ma per quello che possiamo o vogliamo fare in concreto. I fuggiaschi ucraini che accogliamo, Gli aiuti in armi e in sanzioni con etichetta Europa che mandiamo.

Poi è appena passato il 25 aprile. Da ricordare e da reinterpretare.

Da sopravvissuta quale sono ho dovuto esserci. A ricordare, a commentare, a riflettere.

Mi è piaciuto parlare con tanti scolari e studenti.

 La mia diffidenza sulle tecnologie dei contatti a distanza si è modificata un po’ a favore. Con i collegamenti in video si perdono le strette di mano, gli abbracci e moltissimi sguardi diretti. Magari anche qualche occhio lucido o qualche sbadiglio. In compenso si arriva a molti e a moltissimi. Mi si dice che ho parlato, o che mi hanno ascoltato, migliaia di ragazzi, quasi tutti di Reggio Emilia, ma anche infilati dal milanese, senza contare quelli di Roma, condotti da insegnanti mie amiche o da comitati Anpi.

L’eco più grande, di fatto, è quello degli schermi televisivi. Mi hanno conosciuto su LaSette per i ripetuti brevi collegamenti e inaspettatamente anche su ReteQuattro in alcuni spot in omaggio alla data della liberazione.

 E soprattutto, la sera di domenica 24 aprile, nel programma di Fabio Fazio su RaiTre a “Che tempo che fa”.

Non mi sono ancora rivista con calma, ma i moltissimi commenti mi fanno credere di essermi espressa con i miei pensieri.

Ero molto preoccupata, perché in diretta è sempre possibile zoppicare. Anche perché sono enormemente dispiaciuta per le troppe polemiche e i troppi  azzecca garbugli che ancora imperversano.

A me credo spettasse l’onere di dare ai giovani una briciola di informazione e suscitare curiosità, su quella “stagione di dolore armato” che è stata la Resistenza.

Nonostante mi siano stati lasciati molti minuti, credo si sia compreso soltanto qualcosa.

Qui, con più tempo e spazio, mi va di aggiungere o illuminare.

Intanto che non sono stati pochi mesi, ma ben diciotto, cioè quattro trimestri. Sempre chiedono  cosa abbiamo provato in quel 25 aprile.  In trasmissione ho detto sollievo, grande sollievo, sollievo gioioso.

Realisticamente non poteva essere felicità. Noi siamo arrivati a Reggio città il 24 e gli alleati ancora arrancavano con i loro grossi automezzi dalle disastrate strade del nostro appennino, interrotte fatte saltare in più punti dai nostri stessi bravissimi sabotatori, cioè gli esperti di esplosivi. Eravamo stanchissimi per la lunga camminata, per le ore non dormite, per i piccoli  scontri e per il dolore  degli ultimi morti o feriti, a volte saltati sulle mine disseminate dai tedeschi in fuga.  Eravamo   sporchi di polvere e sudore, spesso tormentati dai pidocchi o dalla scabbia, con le gengive doloranti e gonfie a causa del cibo buonissimo ma sbagliato di quelle ultime settimane che era  sempre  e soltanto formaggio grana reggiano strappato ai tedeschi dalle gloriose faticosissime rapine dei partigiani di pianura, i cosiddetti SAP, cioè squadre, cioè contadini o lavoratori anziani oppure giovanissimi, con accanto  e alle spalle e in vedetta le loro donne, le tante donne.  Donne sempre doloranti ma sempre accorrenti e fantasiose.

 In città è stata fotografata la corsa festosa che ci è venuta incontro, con molte donne in abiti corti e sandali ortopedici- autarchici – poveri. Io ricordo solo la stanchezza, il sollievo di entrare in quella sede Gil dove da studentessa andavo a far ginnastica perché alle magistrali non c’era la palestra.  Ricordo di essermi seduta per terra, e di aver respirato, respirato, respirato. Di sicuro avrò aggiustato sulle ginocchia la gonna del mio vestito corto di cotone e mi sarò rannicchiata in quel golfino sferruzzato a mano da lana ricavata disfacendo qualcos’altro. Non ricordo se pensavamo a festeggiamenti. Ricordo solo la voglia di dormire e la volontà di andare a casa, cioè venti chilometri oltre, appunto per dormire ma dopo aver abbracciato mamma e fratello e soprattutto dopo un ricco ritorno all’acqua, al sapone e a biancheria pulita.

Mio padre non era lì con me. Lui era sceso a est, dalla provinciale con la brigata centoquarantaquattro, e da quella parte erano passati già i cingolati , o carri armati, accolti festosamente e omaggiati con mazzetti di fiori di campo dalle ragazze felici, emozionate e curiose di vedere per la prima volta persone di colore. Abbiamo saputo dopo che erano soldati brasiliani, entrati in guerra come alleati degli Stati Uniti.

Subito dopo, stordimento per disordinata pioggia di notizie vicine e lontane. Sollievo per aver scampato chissà come l’assalto dei pidocchi ma non una sospetta irritazione della pelle, prontamente aggredita e fermata da polveri o pomate molto diffuse in quei tempi.  Invece non ho scansato una stranezza sopportata e superata senza medico e medicine. L’abbiamo definita “orticaria” perché prudeva. Ma se osavi grattarti o massaggiarti, la zona si gonfiava mostruosamente, dura e tesa. Se era un occhio diventavi un mostro.  Mi difendevo con occhiali da sole e me ne stavo a casa. In pochi giorni il fenomeno è passato. Tutti in famiglia abbiamo creduto che la colpa fosse di quel troppo formaggio e che il rimedio fosse stato quelle scorpacciate di radicchi e verdure che a casa potevo godermi.

E finalmente è arrivato il primo maggio, con la grande festa in paese, piazza del municipio, balcone con l’altoparlante e io che con voce tremante annunciavo gli oratori, che erano i miei comandanti e persino mio padre che con tre sole parole, credo abbia ringraziato per essere stato incaricato di reggere il comune come “sindaco della liberazione”.

Ecco, se potete, immaginate quei giorni della fine della nostra guerra. Non riesco ad essere fiduciosa in un nostro prossimo primo maggio altrettanto festoso e ottimista. Questa di adesso, è una guerra inaspettata, assurda e addirittura cattivissima, forse più velenosa di quella di allora.

Guerre

Non volevo scrivere più di coronavirus che pure non è per nulla scomparso, e stavo mettendo a fuoco tante  riflessioni sulla scuola.  Invece mi ritrovo  nell’incubo di  dover pensare e parlare di guerra. Guerra di oggi, vera, presente, sanguinosa, disperata.

Chiediamo, pretendiamo, invochiamo trattative, accordi, incontri, mediazioni, intese di pace. Aspettiamo che  capi di stato ,  capi di eserciti, capi di diplomazie trovino punti di incontro, che poi chiameremo accordi.

Pretendiamo e chiediamo che queste persone potentissime con in testa  Putin trovino l’accordo, cioè l’incontro, cedendo su qualcosa di grandissimo per ottenere qualcosa  di  altrettanto grande, e noi, nel nostro piccolo troviamo il modo di non andare d’accordo sul dare o non dare le armi agli ucraini. Come dire ” fate gli eroi, fatevi massacrare a mani nude” perché noi possiamo avere la pace. Sono stata al congresso romano dell’Anpi. Non ho voluto intervenire, non per mancanza di argomenti ma per non aggiungere fuoco al fuoco.

Com’è che le sinistre trovano sempre il modo di dividersi, di separarsi, di trovare il pelo nell’uovo, di beccarsi come i polli di Renzo? e com’è che le destre, vedi SalviniMeloniBerlusconi, trovano sempre la lucidità di compattarsi?

Dopo queste parole amare voglio fare una piccola riflessione sui comici, cioè quelle persone che scelgono di farci ridere o sorridere. Parto dalla Litizzetto, che a volte può sembrare esagerata nei temi, che ha scritto ai semplici soldati russi una lettera che sembra terra terra ma che punge terribilmente. E ripenso al sarcasmo di Gigi Proietti  e ancora più indietro a Totò, che nessuno ormai definirebbe soltanto come comico.  Non so abbastanza della figura del presidente ucraino, ma quando lo sento dileggiato perchè ex comico mi vien da pensare a questi nostri personaggi e per di più mi risulta che nel curriculum di questa persona c’è anche una laurea in materia pochissimo comica, cioè legge.

E qui mi fermo. Il dolore è troppo forte. Tutto è così assurdo, così fuori dal tempo e dalla storia che sembra un incubo, un brutto sogno.  Speriamo di svegliarci e di tornare a sorridere.

4 novembre

Giorni fa, precisamente il 4 novembre, ho visto a sorpresa, e non dall’inizio, un’emozionante ricostruzione del trasporto lungo l’Italia della salma del milite ignoto. Lascio da parte le scene ricostruite con attori e dialoghi, e commento subito le incredibili meravigliose riprese filmate all’epoca. Quel treno così allestito e addobbato per emozioni e lacrime, ma soprattutto quelle enormi folle che lo aspettavano e lo onoravano, è stato per me un terribile  specchio del nostro passato. Tutta quella folla modesta malvestita, dolorante di suo oltreché commossa per quel corpo sconosciuto,  simbolo di un insensato macello e di inutile immenso dolore, mi ha veramente sconvolta. Per di più era l’anno 1921, cioè il tempo delle squadracce fasciste, degli assalti alle case del popolo e delle violenze contro amministrazioni comunali socialiste o contro singoli avversari. La guerra del 14-18 è stata un vero crimine mondiale. La retorica di quell’Italia monarchica e misera ha reso possibile nel dopoguerra la realizzazione di quel simbolo che è il Vittoriale, cioè l’Altare della Patria, che ancora  noi oggi rispettiamo e onoriamo. C’è però differenza di sentimento e di significato. Ogni volta che un Presidente della Repubblica o qualsiasi altro dignitario sale quella grande scalinata, dovremmo tutti pensare all’orrore all’insensatezza e alla inutilità delle guerre, che ancora permangono attorno a noi e ancora sono possibili. Per di più, oggi si avvalgono di tecnologie e strumenti micidiali,  subdoli e invisibili. Oggi ci sono i morti diretti e indiretti, i morti subito e quelli che muoiono dopo o che restano colpiti a distanza. I combattenti non sono soltanto i militari in divisa, oggi eccezionalmente pochi. Ma combattenti inconsapevoli sono interi popoli, donne e  bambini, persino bambini ancora da nascere che ne restano menomati o annientati. Non solo la tecnologia, ma persino la scienza, viene ancora purtroppo usata non per il bene ma per il male. E il pensiero va  alla forza atomica. Ci può salvare solo la pietà e l’onestà, gli accordi internazionali, la forza della ragione.

Detto  questo mi resta un dubbio e un  dolore. Mi spaventa l’ignoranza e la sopravvivenza della retorica. Non avrei mai creduto di trovare su facebook tanti commenti vuoti retorici e insensati a quel programma. La ricostruzione filmata, benché volonterosa, non poteva evitare la retorica. Quella figura di madre, quegli ufficiali sopravvissuti erano pur sempre attori di quel tentativo di sublimare come eroico e utile alla Patria quell’insensato massacro. E’ facile giocare sui sentimenti. C’è il pericolo di tirar  fuori il peggio. L’ho pensato leggendo con meraviglia e dolore decine e decine di commenti insulsi o velenosi inseriti quasi sempre, purtroppo da donne, in coda alla notizia e al ricordo. Certo, molti ripensavano a padri o nonni morti al fronte o mutilati. Molti, incredibilmente, finivano con  insulti al Presidente Mattarella, con retorico amordipatria che è odio ad indistinti nemici, addirittura una pretesa di patriottismo nel rifiuto al vaccino, che dovrebbe essere rifiuto a farsi cavie dei governanti che dal Covid ci guadagnano!  Messaggi che portano l’impronta di autori  quasi analfabeti e irresponsabili. E pensare che hanno perso tempo a scrivere, si sono sentiti sicuri di avere qualcosa da dire agli altri.  Non oso pensare a quelli che pensano cose peggiori ma che non hanno saputo o voluto scrivere. Ecco cosa è la rete. Ecco come può essere usata la tecnologia.  Può essere come i droni, i supermissili o la chimica che si mette a servizio della guerra. Scienza e tecnologia che invece di aiutare, annienta.

Anche i cervelli umani possono diventare micidiali, nemici, distruttivi. La riflessione, la conoscenza e la generosità sono difficili ma più che mai necessari, più che mai da coltivare.

I “no tutto”, la storia e il dolore

Comincio dall’ultimo. Dal colpo al cuore nel vedere quell’assalto alla sede della CGIL nazionale. Ero qui da sola e gridavo no no, nooo  !!! , e cercavo tra quella folla intorno qualche segno diverso, di qualcuno che esprimesse sorpresa o dubbio o un logico dissenso. Nessuno che gridasse “cosa fate, non si fa” o qualcosa di simile. O che cercasse di allontanarsi. Non sapevo che poco prima da piazza del Popolo era stata annunciata e preordinata l’eroica azione dei redivivi squadristi. E mi sono ricordata dei racconti antichi sull’assalto giusto cento anni fa alla cooperativa del mio paese Bibbiano, sede dei sindacati e leghe bracciantili.

Ci metto le foto. 

L’edificio era sorto con i soldi dei cittadini, piccole quote, famiglia per famiglia, poi lavoro non pagato dei muratori, edificio dignitoso, tre piani più l’interrato, cantina, spaccio cooperativo, sedi e uffici, e all’ultimo, in alto, le stanze per albergo o locanda. Le sedi e uffici erano quelle delle organizzazioni sindacali o leghe bracciantili, partiti di sinistra o molto vigorose entità cooperative.

Questi, appunto, i veri obiettivi dell’assalto, i veri oppositori,  cioè i nemici del nascente fascismo. Un  edificio alto come il palazzo del municipio, che era ed  è un bell’esempio della edilizia nobiliare ottocentesca.  Anno 1921, esattamente cento anni fa,  assalto e  devastazione , opera di una squadraccia arrivata da altrove.  Seguono divieti di qualsiasi attività,  sostituzione violenta dell’amministrazione comunale, poi la volontà di distruggere quell’edificio troppo significativo.

In un primo tempo persino più della metà dei nuovi consiglieri comunali si esprime contro  quell’assurda decisione demolitoria . Soltanto nel 1925 riescono a deliberare in quel senso e i due consiglieri che  ancora votano contro vengono costretti a dimettersi con accompagnamento di insulti e gogna pubblica. La demolizione è portata a termine nel 1926. I materiali ricavati sono dati al miglior offerente. Ovviamente nessun risarcimento a nessuno, anzi esaltazione per una così significativa impresa.

Per chi l’avesse dimenticato o fingesse di non saperlo, il fascismo ha preso il potere e se lo è mantenuto con tre modalità di violenza. La prima è la distruzione, assalto e devastazione delle sedi sindacali o case del popolo o cooperative. La seconda modalità di lotta è il “valoroso” uso del manganello, cioè le bastonate ai singoli oppositori. La terza modalità di lotta è  invenzione, continuata  negli anni, il famigerato uso dell’olio di ricino, cioè umiliazione pubblica, dispetto e sberleffo.  Tutto questo accanto agli arresti, cioè galere e confino per chi non ha potuto fuggire all’estero prima delle chiusure delle frontiere.

La scena dell’assalto alla sede CGIL in Corso d’Italia è stata  una triste replica di violenze decisamente fasciste per modalità, stile, odio. 
Dobbiamo  chiederci come è potuto accadere.

Le risposte sono tante. A me sembra che manchi la conoscenza storica e il giudizio morale-culturale. Troppa sottovalutazione e troppa tolleranza verso gruppi nostalgici e mistificatori. Quanti pellegrinaggi a Predappio, quante curve di tifosi negli stadi, quante Casa Pound e Forza Nuova, quanti manifesti evocativi, addirittura marce con saluto fascista, addirittura monumenti a Graziani. Tutta  una sottocultura o leggenda di un fascismo bonario e affascinante, un Mussolini grande capo virile e volitivo, nessuna violenza in Africa, Grecia o Balcani. Equiparazione tra foibe e campi di sterminio, paralleli impossibili con le esecrabili violenze di sinistra o con la estranea Unione Sovietica. Fastidio e ostilità contro il grande e inedito fenomeno della Resistenza partigiana. E tutto questo in mancanza di qualcosa che certamente si doveva fare. Ho già detto che nelle scuole non è arrivata la storia degli ultimi cento anni. Non per responsabilità degli insegnanti ma a causa dei programmi e dei tempi, Qualche volta per mancanza di competenze o di fonti. Qualche volta anche per timore della reazione di genitori apertamente nostalgici e intolleranti.  Tutti noi ex partigiani negli anni siamo andati nelle scuole, ma la nostra testimonianza non poteva riempire tutto il vuoto perché personale, ristretta ai luoghi e alle persone.  Mi sono chiesta come mai in Italia non ci sia un Museo della Shoah, come c’è a Berlino dove ho visto quella fantastica bellissima grande costruzione culturale severa ed emozionante che è una vera e completa lezione di storia. Un museo della Shoah e della Resistenza a Roma lo aveva in programma  Veltroni, ma non ne ho sentito parlare più.  In giro per l’Italia non so. A Roma abbiamo quelle piccole stanze di via Tasso, che sono testimonianza più che museo. Abbiamo una piccola dignitosa e utilissima Casa della Memoria, sede di associazioni e luogo di incontri. Più importanti e grandiose, le commoventi  Fosse Ardeatine, che sono monumento e ricordo, ma non possono spiegare tutto. E io ritengo non abbastanza frequentate.

Ultima riflessione. I moderni fascisti, tipo Casa Pound che si dicono essere quelli del terzo millennio, spesso cercano un parallelo con violenze di sinistra. Io penso che gli eterni bastian contrari di estrema sinistra sono quelli che per  volere tutto e subito  . ottengono il nulla o addirittura  fanno andare indietro la storia. Tanto per rinfrescare la memoria chiedo di ricordare le vicende degli anni di piombo, delle brigate rosse che con le loro follie hanno fermato un possibile percorso di condivisione e pacificazione, forse simile  alla mitica  e sognata “democrazia progressiva” di togliattiana definizione.  E come battuta finale, ricordo che oggi,  fuori dal governo Draghi c’è solo la Meloni a destra e la sinistrasinistra a sinistra. 

Non più coronavirus

Non più diario del coronavirus, ma diario di rabbia, dolore, delusione, paura.

Mi sembra che ci sia poco da stare allegri. Nel mondo con l’Agfanistan e simili, si va indietro di vent’anni e credo in sostanza di secoli. Da noi vediamo alla luce del sole degli autentici fascisti mascherati da antigreenpass e da paladini della libertà. Che si permettono di manifestare e di menar le mani, che imperversano in rete con minacce e falsità colossali, senza che nessuno li metta in galera o li faccia stare zitti. Nel privato due lutti e non per covid. Una cara amica che vedevo poco ma che invidiavo per l’irruenza combattiva, ancora troppo giovane e forse troppo sola. E l’altra, così originale anche nella musica, che muore in pochi giorni non lontano da suo padre, che ha superato da un pezzo gli ottanta anni ed ha in dura sorte di veder morire una figlia. 

Dolore e rabbia anche per il fuoco, che è divampato violento, improvviso e vicinissimo, in quel prezioso corridoio  verde di cui andavamo fieri e che avevamo difeso a suon di assemblee e a  forza di firme per ottenerne la inedificabilità. Le fiamme arrivavano e arroventavano  anche le mie finestre al settimo piano e ci son voluti molti getti di idrante molti voli di elicotteri per impedire che fossimo arrostiti anche noi, o le nostre cose, come quei poveracci del palazzo di Milano. La rabbia è pensare che ci sia stata una mano criminale o forse degli interessi di qualche grosso progetto, per mirare a questi sessantaquattro ettari liberi che credevamo preziosi per questi due quartieri, Don Bosco e Romanisti,   che non è giusto definire periferia. La rabbia cresce se si pensa che proprio qui vicino, a pochi chilometri, abbiamo le due più grandi caserme e sedi dei vigili del fuoco, tra Capannelle e Don Bosco. I chilometri sono pochi, ma la burocrazia ha la millemiglia, per tutti i minuti che al telefono ti risponde solo una voce registrata che dei tuoi strepiti se ne fa un baffo, mentre  il fuoco si avvicina  ai nostri pioppi non nostri, così frondosi ma che nessuno viene a contenerli nello strepitoso sviluppo.  Così che io, sebbene mi senta poco paurosa, mi vesto in fretta e  furia in vista di un possibile ordine di sgombero. Per di  più, eccezionalmente sono in casa da sola. I ragazzi sono in macchina, abbastanza vicino, e  stanno tornando. Devono affrontare il fumo nero che non ci fa vedere le case di fronte e che è arroivato fino alla via Tuscolana, portando cenere e frammenti di vegetali bruciati.   Intanto,  quei poveri “pompieri” devono scalare la spianata delle canne, così appetitose per il fuoco,  aprirsi un varco per spruzzare quell’acqua e liquido speciale che poi, a fine lavoro, lascia del bianco sul nero, come se fosse  cenere,

Ora abbiamo un panorama tristissimo, cioè tutto marrone scuro e marrone chiaro e ancora volano i frammenti di foglie bruciate o disseccate che stanno provvisorie su quelle che erano belle fronde verdi ed ora sono stecchi. Molta solidarietà e contatti coi vicini di casa. Ultima ironia. L’ala destra del nostro palazzo è nata come cooperativa dei vigili del fuoco, e ancora qualcuno ci abita. E’ una fetta di Roma e una fetta d’Italia. Dovremo persino votare per il comune. Votare per cambiare, visto che in questi ultimi anni non c’è stato  sviluppo. Il grande Renzo Piano, architetto, chiede la cura delle periferie. Pure i quartieri mediani hanno bisogno di attenzioni. Il verde, sia per gli allarmi che per i problemi ambientali è certamente una delle priorità. Concretezza, efficienza, opere minori ma anche visioni  alte . La grande vela di Calatrava che si vede dal mio balcone, ha bisogno di essere completata secondo quel  progetto dell’Università di Tor Vergata che era addirittura messo in modellino in mostra alle scuderie del Quirinale, che non ho potuto  fotografare. Occorre gente concreta, poco chiacchierona, molto pronta al sacrificio.  Perché guidare una città, e in più guidare una Roma, è  opera per gente coraggiosa che sappia lavorare e penare non solo individualmente, ma in squadra.

Quindi auguri al quartiere, auguri a Roma, auguri a noi. E a Roberto Gualtieri che mi sembra il più giusto.

Diario del coronavirus n. 9 (nove!!!)

Da non crederci. Ancora qui a parlare di coronavirus! Dopo un anno e mezzo? Invece sì, e ancora più arrabbiati. Nonostante il vaccino. Colpa dei troppi cretini che se la prendono con quelli che ne sanno più di loro perché si permettono di salvargli la vita.

Questo virus così sfuggente e carogna, che scappa anche dall’assedio del vaccino e ci fa dubitare ancora su tutto. Infatti   vedo tantissimi girare tra parco e giardino ancora con la mascherina. Questo dev’essere un quartiere di gente virtuosa. Molti sono già andati nelle seconde case. Molti hanno ripreso un po’ a lavorare. Lo vedo dal movimento delle auto in cortile. Anche qui, come in molte strade di Roma, si sono formate quelle montagne di immondizia attorno ai cassonetti stracolmi. E io me la  prendo con la ragazza straniera che non mette la non riciclabile nel cassonetto giusto!

Mi chiedo come siamo diventati. Ora che ci concediamo di  sostare un po’ in giardino a leggere il giornale con sorpresa ci troviamo degradati, ingobbiti, tremolanti. Il pensiero reciproco è ;”Mamma mia, come si è ridotto!” Io lo penso degli altri e gli altri lo pensano di me. Anche negli appartamenti ci sono novità dolorose e novità curiose. Nuovi abitanti, figli o nipoti di chi se ne è andato. Qualche straniero, addirittura indiano che va e viene.

E un arrivo di molti cani. In questi otto piani ce ne sono sette, tra cui uno bianco e grande che deve essere molto malato perché quasi non cammina. Poi ci sono i gatti, tre. Il più grosso lo vedo stravaccato in balcone con accanto il suo topolino-giocattolo, quasi sempre ignorato. Ecco come siamo diventati.

In compenso i volontari del giardino  tagliano  l’erba e le siepi, attivano l’irrigazione, riverniciano le panchine, non rimproverano più quelli che passano dai vialetti con i cani al guinzaglio. Tagliando l’erba tagliano i tappeti di margherite e ultimamente anche una iniziale invasione di fragoline, piccole e rosse e chissà se sono saporite. Nei mesi scorsi abbiamo avuto i tappeti di viole, che ormai hanno raggiunto tutti gli spazi. Rimasto interrotto il rinnovo dei giochi per i bambini e il rifacimento del relativo tappeto erboso.

Tra aprile e maggio ho avuto il riconoscimento della medaglia d’oro per Mimma. Tutto molto ridotto e soffocato dall’attualità dolorosa e litigiosa. Dovremo riprendere il discorso perché c’è ancora troppo da sapere della storia passata, delle sofferenze delle donne, del cammino ancora lungo e accidentato che ci aspetta. Di scuola, di cultura, di storia e di storie ne abbiamo ancora bisogno. Chissà. Vorrei che questa fosse la mia ultima nota col titolo di coronavirus.

Diario del coronavirus n.8 (otto)

Ecco, sono ancora qui a parlare del coronavirus. Il numero uno era del 2 aprile 2020  e il numero sette era del 21 marzo 2021. Sembra di essere in un film di fantascienza o dell’orrore o di favola. Invece stiamo ancora qui a fare bilanci, considerazioni, tristezze. Ormai siamo in tanti già vaccinati, anche perché in questi quattro palazzoni siamo ancora in molti che ci abitiamo fin dall’inizio, cioè dagli anni settanta. Allora eravamo giovani coi figli piccoli. Quindi è logico che, se ci siamo ancora, dobbiamo per forza avere un sacco di anni. I figli sono andati altrove, lontano poco o tanto. Nella mia scala due coppie di genitori ce li hanno in  Inghilterra e gli altri a Parigi, ma tutti e due i figli e addirittura con nipoti. Con un mondo così grande e così vicino, noi qui, in queste scale prigionieri in casa, ostaggi di un esserino piccolissimo e cattivissimo e non del tutto conosciuto. Per fortuna portiamo ancora tutti  la mascherina a causa delle incognite e  dei pericoli possibili. Ho detto per fortuna perché sono contenta di nascondermi di non dovermi truccare per quel po’ che ancora mi concedevo.  Mi meraviglio che se ne vadano all’altro mondo quelli che sono più giovani di me! Proietti, Battiato, la Fracci ! Ma erano ancora giovani, potevano ancora dirci qualcosa, raccontare, parlare cantare, ballare. Ora noi che siamo del loro secolo possiamo solo riattingere alle loro parole, ai loro esempi. E sperare che i giovani siano abbastanza curiosi per andare a scoprire quelle vite ormai concluse, ma che  parlano ancora,  sostengono ancora.

E’ passato l’8 marzo, il 25 aprile e tra pochi giorni sarà il due giugno. Tutte date che “prima” erano importanti. Ora tutte ridotte a tristi passi solitari per andare ad accarezzare una corona o sotto una lapide dimenticata nel traffico o nella campagna. Ci sarebbe da ricordare anche Marzabotto, cioè Montesole, e Sant’Anna di Stazzema, così maltratta e malcompresa da un brutto film americano.  Tutte cerimonie e riti che dopo la pandemia sono sicura che non ci saranno più, o meglio, ci saranno ancora in forma diversa, meno  calda purtroppo,  e con meno ricordi. E’ giusto che sia così. Ma non sarà giusto ignorare o dimenticare. Dovrà esserci la memoria migliore, cioè la conoscenza storica, la riflessione, la consapevolezza e la distinzione tra il giusto e l’ingiusto, tra i carnefici e le vittime, i colpevoli e gli innocenti. In questa prospettiva devo chiedere scusa a chi in rete si sarà imbattuto nella mia faccia antica e nelle mie parole. Siamo rimasti in pochi a poter testimoniare o raccontare. Qualcosa ho rifiutato, ma altro ho accettato.

Mi è stato chiesto il ricordo del voto nel 1946 per la Repubblica. Qualcuno si meraviglierà di sapere che molti partigiani che avevano combattuto e rischiato la vita in quel sogno di Italia non più comandata dai Savoia, al momento decisivo non  hanno potuto votare. Diritto  negato. Bisognava avere 21 anni. Anch’io non ho potuto votare. Ancora più strano, visto che già dal 45 andavo per paesini e casolari a cercare di far capire la bellezza e la giustizia del voto, specialmente per le donne, così storicamente neglette e mortificate.  Mi è venuta la curiosità di controllare. C’è un elenco completo e ufficiale dei combattenti della 144^ Brigata Garibaldi dove risulto anch’io con mio padre. Ci sono 614 nomi, seicentoquattordici nomi con data di nascita. Su quei 614 ne ho contati 101, centouno, che non hanno potuto votare perché troppo giovani. E non sono tutti, perché non ce l’ho fatta a considerare anche quelli nati nel 1925, ma nei mesi successivi, cioè nel secondo semestre che di sicuro non hanno potuto andare alle urne.  Abbastanza maturi per morire ma non per votare! Altre stranezze ormai dimenticate. Si votava in due giorni, la scheda era da ripiegare e da incollare, quindi alle donne niente rossetto per rischio annullamento del voto, poi conteggio lunghissimo e attesa angosciosa fino alla sera del 10 giugno, arrivata ai più  nella giornata dell’11 e confermata in Cassazione il giorno 18 , Non ricordo i pensieri, di certo le preoccupazioni di tutti. Ma tutti, giovani e vecchi, impegnati a ricostruire  e quindi a dimenticare. Tutti, però, con la certezza che tutto doveva cambiare, che tutti i sogni cioè tutti i bisogni, non potevano più essere ignorati.  In qualche modo, con grandi dolori e con grandi pericoli siamo andati avanti.  Non si risolve mai tutto. Nel pubblico e nel privato si fanno passi avanti e talvolta passi indietro. Chissà dopo questa pandemia. Si spera nel passi avanti. E che i giovani abbiano la vista lunga e larga come l’intero mondo. Larga. diversa e sempre un po’ più giusta.

Mimma medaglia d’oro

Questo ultimo 25 aprile è stato particolarmente emozionante.   Pochi giorni prima, il Presidente della Repubblica, a nome dello Stato italiano, ha onorato con medaglia d’oro, la partigiana Francesca Del Rio, nome di battaglia Mimma.
Non vi so dire la mia emozione.
E’ dal 2007 che mi ci sono impegnata.  E avrei dovuto farlo dal 2005, sessantesimo anniversario della liberazione. Perché soltanto in quell’anno, Francesca ha trovato la forza di raccontare. E soltanto dal 2007 abbiamo cominciato a cercare documenti.  Quell’abbiamo è per includere la cara Raffaella Cortese De Bosis , autrice e ricercatrice della Rai, che ha frugato negli archivi, scritto e interrogato questure, prefetture e ministeri  a Roma e in giro per l’Italia.   Nel 2017, al mio novantesimo compleanno, ho potuto promettere in pubblico che mi sarei dedicata a far conoscere e onorare questa donna, morta nel 2008, simbolo ed esempio veramente unico.
Soltanto nel febbraio 2018 abbiamo potuto presentare la domanda ufficiale al competente Ministero dell’Interno.
Prime firmatarie siamo state io e la cara Raffaella.  A noi si sono aggiunti i sindaci dei tre comuni ove Mimma ha vissuto e operato, cioè Bibbiano, San Polo d’Enza e Ciano che ora si chiama Canossa. E ancora si sono aggiunti le Anpi di questi tre paesi e provinciale, più Istoreco e Casa Cervi. In allegato ben otto documenti corposi e straordinari,  di cui uno rintracciato tra gli “armadi della vergogna” in un fascicolo che prometteva elenchi di persone fucilate. Solo l’intuito diffidente di Raffaella ha potuto scovare quel  nascondiglio.
Finalmente, evviva!  In tempo per questo 25 aprile, arriva  il diploma con la medaglia d’oro  a Mimma,  ai suoi figli e nipoti ed anche a noi, che l’abbiamo voluta ricordare e ringraziare.
Ora, dopo aver  raccontato  la burocrazia vorrei raccontare la poesia, cioè episodi e sentimenti, dolori e forza di una donna, una ragazza del secolo scorso, una che sta all’inizio del nostro vivere liberi.
La storia comincia quando Mimma si dispiace con mio fratello. “Tua sorella si è dimenticata di me”.
Infatti nel mio libro lei non c’è. E’ vero, mi ero dimenticata.  Lei trasferita a Parma e io a Novara. Più facile dimenticare. Oppure volevamo proprio cancellare certi ricordi.  Mimma dice che sempre cercava di dimenticare. Eppure conservava ancora, rappezzata e sbiadita, una lettera che proprio io le avevo scritto in data 18.aprile 1945 da “zona”, che era Vetto d’Enza sede della 144^ Brigata Garibaldi.   Le chiedevo di prepararmi degli incontri con donne e popolazione di sette frazioncine del comune di Ramiseto, zona libera partigiana, Tutti posti distanti da Vetto di oltre sedici chilometri, cioè stradine e sentieri,  montagna che più montagna non si può. Lettera scritta a macchina, su fragile e malconcia carta riso, che forse non si fabbrica più.
Solo nel 2006, a  sessanta anni dalla liberazione, Mimma ha accettato di raccontare anche a noi,  con fatica e dolore. Con dolore e  pudore l’aveva dovuta raccontare al medico che la stava curando e che aveva preteso di sapere la causa di quel seno disastrato e mutilato.
Lei era una delle mie staffette. Abitava a qualche chilometro e tra campi e carraie e se avevo altri impegni le mandavo mio fratello ragazzino a portarle volantini o comunicazioni, tutto fin  dalla primavera del 1944. Lei aveva in quella frazione un bel gruppo di donne collaboratrici  e un giovane fidanzato arruolato in montagna tra i partigiani. Nel dicembre del 44, quando tutto è diventato drammaticamente difficile, Mimma è stata arrestata e imprigionata a Ciano che era centro tedesco antiguerriglia.  Da quel paesino ai piedi della montagna, partivano i feroci rastrellamenti e si cercavano spiate, informazioni e confessioni. Si torturava senza pietà. Mimma racconta di sé, ma anche delle torture al giovane Iones Del Rio, un partigiano di Montecchio che operava col gruppo di mio padre. Iones è stato poi portato sulla strada di Rossena e lì fucilato, sorte toccata a molti altri.  Da quella caserma non è uscito nessuno vivo, salvo un personaggio forse collaboratore, che di fatto fu lasciato andare. Soltanto Mimma si è salvata. Torturata tutti i giorni, per un lungo mese. “Non piangevo, non  volevo dargli soddisfazione. Chiudevo gli occhi , non  guardavo. Loro sghignazzavano, avevano dei grembiuli tutti insanguinati, sembravano macellai”.
L’ inverno quell’anno è stato particolarmente freddo e nevoso. Mimma era incinta ma molto magra. Torture tutti i giorni. Fino alla notte del 9 gennaio, quando riesce a fuggire. E in che incredibile modo! Sa che stanno per mandarla a Mauthausen come d’abitudine da quel presidio.
In piena notte si fa forza.  Nella latrina c’è un finestrino alto e stretto, e all’esterno  il tubo discendente della grondaia. Mimma si arrampica a fatica, passa a stento, si attacca a quel freddo tubo di latta e cade nella neve. E’ scalza e le sanguinano le mani. Aveva pensato :” Se muoio almeno potranno farmi il funerale”. Invece, nonostante le orme e le gocce di sangue, riesce a farsi aiutare da contadini amici. Quasi subito c’è l’azzardo di raggiungere le formazioni, cioè noi e il suo compagno, padre del bimbo che portava in pancia e suo futuro marito. Ha i piedi congelati. Racconta tutto il dolore di quei piedi. Racconta dei vestiti e delle scarpe che la madre le ha portato.  Ed anche del cavallo, col quale, di notte, passa  tra i boschi e lungo il torrente fino alla zona partigiana. Dice che con la neve e la luna, ci si vedeva come di giorno, e che quel cavallo contadino scivolava sul ghiaccio. Eppure ce la fa. Arriva a Vetto dove c’ero anch’io. All’inizio è assegnata al gruppo informazioni diretto da Laila, Anita Malavasi.  Poco dopo risulta destinata alla polizia partigiana, che operava spesso ai confini della zona libera. C’è un episodio riferito da mio fratello sui ricordi di mio padre. II 7 marzo 45 Mimma è con un gruppo di partigiani addetti alla spola tra la pianura e la montagna. Lo comanda  Saetta, cioè Dante Notari. In località Cerredolo dei Coppi, il gruppo si scontra con un posto di blocco tedesco e il comandante Saetta perde la vita mentre gli altri riescono a passare. Nel gruppo c’era anche mio padre Prospero, nome di battaglia Aroldo. Lui era scampato alla fucilazione assieme ad altri 14 ostaggi e conosceva  bene Saetta. Era stato lui a convincere quel giovane, figlio di contadini amici, ad aderire alla resistenza. Ricordo anch’io il  lungo dolore di mio padre per quella morte, che li aveva salvati. Mimma, appena giunta in zona partigiana, si mette subito a fare ciò che serve, fino al parto, disastroso, senza assistenza qualificata, concluso drammaticamente con la morte del bimbo. E’ il 9 aprile.
Non sono tempi di giusti riposi. Soltanto nove giorni dopo, il 18 di quel mese, le scrivo quella lettera della quale dolorosamente mi meraviglio. Io avevo poco più di  17 anni e  quasi nulla sapevo su sessualità gravidanze e nascite. Nella lettera le chiedo di organizzarmi delle riunioni di donne e di popolazione in sette frazioncine del comune di Ramiseto, tutte località distanti almeno 16 chilometri da Vetto dove era attestata la 144^ brigata Garibaldi e dove eravamo noi,  io e il gruppetto di addette alla propaganda.  In vista della liberazione era sembrato giusto parlare ai montanari e ai partigiani su cosa si voleva per dopo, cosa significava votare, organizzarsi in sindacati, avere un sindaco e non un podestà, voto e diritti  alle donne. In quella lettera c’è anche scritto “come l’altra volta” e altri riferimenti sul lavoro passato. Vuol dire che Mimma aveva già svolto quell’incarico, prima del parto, ma chissà se anche in quei nove giorni.
Quelle riunioni previste attorno al 25 aprile, non le abbiamo fatte, perché è iniziata la battaglia finale. Io ero fuori zona, verso la statale, e tutto il caos e il pericolo di quelle tappe l’ho condiviso con brigate e distaccamenti che conoscevo poco, con incarichi strani e diversi, quasi sempre insieme alla cara Carmen Zanti. Invece la mia 144^ scendeva dalla provinciale della Val d’Enza ad est, confine con Parma. Ciano, sede di quel presidio tedesco dove Mimma era stata torturata, era già liberata dal 10 aprile per azione congiunta di gruppi reggiani e gruppi parmensi. Dalla Val d’Enza i partigiani sono scesi in squadra, quasi sempre a piedi. Ancora c’è chi ricorda che tra loro c’era una partigiana a cavallo. Di sicuro era Mimma, e non per stupire, ma per quei piedi congelati.  Mimma è andata a cavallo anche alla sfilata del 5 maggio a Reggio, quando gli alleati hanno concesso gli onori militari e ottenuta la consegna di tutte le armi.
Dopo, per Mimma, tutto è silenzio e fatica di vita.  Fino al 7 febbraio 2007 quando ai ragazzi della terza media di Bibbiano, riesce a raccontare. E’ allora, che fa vedere a mio fratello quella mia lettera, scritta fitta fitta col nastro rosso di una vecchia Olivetti M40.  Ora conosciamo  la sua vita non facile, coraggiosa e sofferta. Tre figli allattati con un seno solo, titoli di studio conquistati alle scuole serali, interventi a quei piedi congelati, percorso lavorativo in progressione, dolori e riconoscimenti.  Anche nel privato, Mimma è un esempio per il percorso di vita non sempre fortunato ma  coerente con gli ideali di quella “stagione di  dolore armato” chiamato Resistenza, che nessuno mai dovrebbe dimenticare o sminuire.       

Teresa Vergalli (Annuska)

Il segnalibro, di Giuseppe Mariuz

Carissimo , finalmente mi è arrivato e tutto d’un fiato ho letto il
tuo ultimo libro
, definito in copertina “una grande  saga familiare”.
Certo, come romanzo ci sta bene l’immagine di saga familiare. Ma come
ripercorrenza di un cruciale periodo storico, ci starebbe bene la
definizione “la storia da vicino sugli anni tra le due guerre e poco
dopo”. Concretamente tu collochi il racconto nelle tue terre, il
Friuli, , confine e sentiero verso la futura Europa, confine imposto
ma che non riesce ad impedire che le persone, ricche di anima sangue e
sentimenti, trovino la forza e i modi per intendersi e per legarsi.
Intanto osservo subito che in queste tue nuove pagine ci sta dietro un
tuo grandissimo e profondo lavoro di documentazione. Hai letto e
studiato, hai parlato con anziani, sei andato sui posti. Per uno che
nella vita è stato insegnante di matematica direi che non c’è male. O
forse è proprio la matematica, con la sua razionalità e verità, che
induce e prepara a tanto altro. Insomma, lo voglio sottolineare anche
perché nella mia vita di insegnante ho sempre vista molta importanza e
interdipendenza tra questa branca del sapere e tutte le altre.
Ora il mio commento al libro.

Quando parli della prima guerra mondiale mi ci sono rivista mio padre,
quasi le sue stesse  parole nel raccontare proprio quei posti nel tuo
Friuli, quelle sofferenze, quelle assurdità, quelle segrete furbizie
nel cercare di sopravvivere. Mio padre non è stato fatto prigioniero,
quindi non  ha potuto conoscere da vicino quello che gli era stato
dipinto come il nemico. Ricordo che lui, dopo Caporetto, aveva trovato
chissà come una bicicletta ed  aveva pedalato fino a casa, profonda
pianura padana. Forse pensava che tutto fosse finito, cioè sconfitta e
ritorno a casa. Non so come ha fatto a non farsi considerare disertore
e a riprendere quella assurda guerra-carneficina.
Gli anni del fascismo, dopo le illusorie e infantili azioni dei gruppi
cattolici e di quelli meno numerosi e più arrabbiati di stampo
para-sovietico, scivolano piatti e sviliti nelle tante fatiche della
sopravvivenza e della persecuzione. A stento affiora il desiderio e
bisogno di libertà, di sguardo largo sul mondo e sulle differenze.  La
nuova generazione che ha voluto studiare è sensibile al dubbio. I più
anziani non sanno fare gli eroi e sembrano un po’ opportunisti o
vigliacchi. Mi è piaciuto come hai descritto Rico negli anni del
ventennio. Non mi piace che i cosiddetti antifascisti di quell’epoca
vengano tutti dipinti come eroici, coraggiosi, sicuri di se. La realtà
era molto dura, le minacce molto concrete. Non è umano né normale fare
gli eroi tutti di un pezzo quando si ha una famiglia da sfamare, dei
figli da lanciare  nell’ostile mondo, una piccola nuova sicurezza
sociale da difendere.
Anche gli eroismi dei due giovani al di qua e al di là dei confini,
non sono da urlo. Sono umanissimi sentimenti di dubbio, istintiva
avversione alle ingiustizie,  orizzonti diversi appena appena
abbozzati, ma che con tutta evidenza hanno radici in una antica onestà
contadina,  in una generosa umanissima e trattenuta capacità di amare,
addirittura bisogno di amare.

Ultimo pensiero. Quegli episodi della resistenza tra pianura altopiano
e montagne del Cansiglio mi sembrano copiate da ciò che ho visto o
vissuto tra le nostre montagne in val d’Enza. Niente retorica, niente
grandi comandanti strateghi,  soltanto eroi per caso, modesti o
involontari. Molta tragedia, molto dolore, inevitabili errori, troppi
morti.  Ma alla radice di tutto, sia nelle guerre che nelle pause di
pace, c’è sempre e sempre ci sarà una insopprimibile volontà e bisogno
di giustizia, di amicizia, di comprensione e di generosità.
E’ di questo che anche oggi, in Europa e nel mondo, abbiamo bisogno
per uscire con meno dolore possibile da questa terribile guerra alla
pandemia.

Diario n. 7 del Coronavirus

Siamo ancora qui. Dopo un anno, più stressati e meno fiduciosi di
prima. Eppure la ragione ci dovrebbe assegnare pensieri più positivi,
visto che  è stato trovato il vaccino e che da qualche settimana è in
funzione la grande battaglia, cioè  piccole siringhe contro invisibile
assassino.
Un anno fa avevamo bandiere e cartelloni alle finestre, c’era il
problema di fare la spesa, ma abbastanza pazienza, forse curiosità del
nuovo, fiducia nei governanti e nei professori. Adesso è diverso.
Siamo stremati e impazienti. I politici ci hanno deluso o fatto
arrabbiare. Gli scienziati ci hanno stancato con dubbi e distinguo.
Ora possiamo solo aggrapparci alla speranza che la macchina
vaccinatoria prosegua senza altri cavillosi intoppi, che almeno in
estate i già vaccinati  possano incontrarsi o muoversi, che i ragazzi
possano ancora andare a giocare al pallone e prepararsi per la scuola
com’era prima.
Sono andata a fare la seconda dose del  vaccino. Eravamo tutti lì, in
quel retro della clinica dove erano state messe delle panchine.
Avrebbe dovuto essere primavera, ma faceva freddo. Quelle panchine
sapevano di frigorifero. In compenso organizzazione perfetta, ancora
più veloce dell’altra volta. Qualche persona chiamata risultava
assente o in ritardo, ma avanti in fretta con chi c’è, in grande
anticipo per me.  Foglio di via con le istruzioni per il dopo. Cioè
non ritenetevi al sicuro, non ritenetevi inoffensivi almeno per un
po’.  Io ho pensato e l’ho detto all’infermiera: ” Ormai non morirò di
covid, ma certamente di qualcos’altro”. Tutte due abbiamo aggiunto :”
Più tardi che si può”.
Infatti ho ancora troppe cose che mi aspettano. Un matrimonio troppo
rimandato, ancora due lauree imminenti, le possibilità di lavoro del
più grande, un altro traguardo di pensione. E’ proprio vero che non si
è mai contenti.  Non dovrei lamentarmi. E’ vero che sono diventata un
po’ un rudere, ma sto ancora in piedi, faccio cappelletti e tortelli,
mi meraviglio del nipote  ormai forzuto e villoso ricordandolo così
burroso e morbido nei suoi anni primi. E la ragazza, sempre un po’
trattenuta, ma magnifica anche da grande  e ammirevole per capacità e
traguardi raggiunti, che forse mi darà la gioia di diventare bisnonna.
Quindi, di che mi lamento? Tra l’altro, domenica, ultimo giorno di
zona gialla quindi di una certa libertà, mi sono piombati in due con
grandissimo scatolone e altri fagotti. Non avrei mai creduto che quel
desiderato  estrattore fosse  così grande e ingombrante, più adatto ad
un bar che a una cucina di casa. Poi tutti e due, figlio e nipote, a
montare quell’aggeggio, a studiare le istruzioni e addirittura  a fare
quell’estratto che mi porgono trionfanti, quale aiuto al mio bisogno
di vitamine e vegetali. Siamo in tre ad apprezzare il risultato. Io ci
sento la prova di affetto, la cura, la preveggenza.
Tra i vicini di casa, so che alcuni  sono andati al primo appuntamento
per il vaccino. Alcuni per età e altri per professione, insegnanti e
forze dell’ordine. Tutti mi dicono dell’organizzazione perfetta, della
amorevolezza degli operatori, della fiducia. Chi è stato alla “nuvola”
ha commentato la bravura. ” Ma allora anche noi siamo capaci di  fare
le cose per bene!” Peccato che, poi, per due o tre giorni, quella
perfetta organizzazione sia rimasta sigillata e muta per la stupida e
inutile polemica sul vaccino Astrazenica. Per cui, intanto siamo in
ritardo.
Ormai  non c’è che da aspettare la primavera, sia quella geografica
che quella economica-sociale. E  prepararci ai cambiamenti che di
sicuro dovranno investirci e ai quali dobbiamo far fronte. Ognuno per
quel che sa e per quel che può. Io, intanto penso e mi preoccupo per
la scuola, come sarà e come dovrebbe essere. E spero poter dare
qualche aiuto.

Diario del coronavirus n. 6

Evviva! Ho fatto il vaccino, prima dose. Ieri l’altro, martedì.
In famiglia siamo già quattro ad aver fatto questo primo passo. Mio
fratello a Bibbiano la scorsa settimana, sempre prima dose,
all’ospedale di Montecchio, circa cinque chilometri da casa sua, dove
c’è andato da solo in macchina. E lì ha trovato anche qualcuno che
affettuosamente lo ricordava per i suoi nove  anni da sindaco. Non ha
dovuto prenotarsi, l’hanno convocato credo in base all’età. Lui dice
che in Emilia in sanità tutto funziona al meglio, anche per scelte
degli anni passati.
Qui a Roma, dove per i vaccini andiamo abbastanza bene, ha aperto la
serie dei vaccinati la nonna di mio nipote che mi ha preceduto nella
clinica Villa Aurora.
Secondo caso,  sabato scorso all’ospedale san Gallicano ha avuto la
convocazione la suocera di mio figlio. Tutto è filato liscio, tempo
mezz’ora o poco più. Anche per lei, nessun problema  successivo.  Noi
facciamo parte della categoria degli ultraottantenni .
E gli altri, quelli un po’  meno giovani? E’ già prenotata tra due
settimane mia nuora nella categoria insegnanti, indipendentemente
dall’età.
Aspettiamo, sia le decisioni che gli arrivi delle  fiale.
Ed ora vi racconto.
Ero abbastanza preoccupata, perché avevo visto i filmati di Milano
Niguarda, con tutti quegli anziani in attesa o in sosta all’aperto,
stretti nei cappotti, molti in piedi e qualcuno seduto, compreso un
centenario  intervistato.  Se avessi trovato una situazione simile
immaginavo già una bella scena di protesta  tipo non avete rispetto
dei vecchi, non sapete come sono piccole le loro forze,  non ricordate
che siamo stati noi a costruire il vostro benessere , eccetera,
eccetera.  E addirittura il rifiuto, il ritorno a casa, viaggio
inutile.
Non conoscevo quella clinica, molto lontana dal mio quartiere scelta
da mio figlio per molte e giustissime considerazioni.
 Devo raccontare che ieri mattina Roma era non nel Lazio ma in pianura
padana. A proposito di cambiamento climatico, la nebbia nascondeva
tutto, campagna e profilo della città.  Anche dal raccordo il
paesaggio sfumava in quella nuvola di fumo bianchissimo ma
impenetrabile.  Soltanto dopo molti chilometri, poco accosto allo
svincolo dell’  Aurelia ci ha raggiunto un po’ di sole.  Traffico
pazzesco, come se non fossimo in quasi quarantena tutti quanti.
Alla clinica, immersa nel quartiere Boccea, problema parcheggio,
previsto. Per questo siamo venuti in tre. Io e la ragazza amica
seguiamo i cartelli. Siamo in leggero anticipo. Corridoio attorno
all’edificio, quindi piccolo spazio tra le mura con già un gruppetto
in attesa, compreso un signore in sedia a rotelle. Gli altri
vecchietti, me compresa, visibilmente in ansia e in curiosità. Primo
sollievo, nessuna scala o scalino. Abbastanza presto si affaccia una
giovane infermiera che chiama i convocati secondo un elenco.
Abbastanza presto e addirittura in anticipo sul previsto chiamano
anche  me. In un ingresso abbastanza piccolo ci sono due ragazze in
camice e casco su due tavolini che prendono i documenti fanno le
domande, mi chiedono di firmare su uno schermo col dito! E che
orribile firma mi è venuta! Ma è andata bene lo stesso. Quindi avanti
in un corridoio con alcune porte. Sono le stanzette dell’iniezione. Un
lettino una sedia, un computer. Parole cortesi, affettuose,
rispettose. Non sento nemmeno la puncicata. Quindi l’attesa nel
corridoio, dove le sedie distanziate permettono la sosta di quindici
minuti.  Sono senza orologio, ormai soppiantato dal telefonino,
rimasto nella borsa affidata alla mia accompagnatrice. Ma c’è
l’orologio alla parete. Con noi ultra eccetera, vengono anche due
giovani donne. Di certo sono due infermiere o  persone che lavorano
qui con qualche  mansione. Alla fine  si va nell’ufficio spalancato di
fronte, per le formalità di addio, consegna del certificato con la
convocazione tra quattro settimane per il richiamo, nessuna
raccomandazione o allarme di effetti collaterali.  E via, fuori, nel
sole, a rintracciare la macchina che ci riporta a casa, sollevati,
riconoscenti, e non troppo stanchi.
La ragazza, che è una intraprendente amica, mi fa la foto-ricordo. Nel
mezzogiorno e nel pomeriggio, a casa, tutto normale. Nessun effetto
collaterale. Mio figlio, senza motivo apparente  si ferma sia a pranzo
che  tutto il pomeriggio a lavorare  al suo pc.  Non ho chiesto, ma
immagino volesse accertarsi dell’assenza dei tanto chiacchierati
effetti collaterali.
 Ora alcune riflessioni.
Per vaccinare un numero più alto possibile di cittadini occorrono le
fiale, occorrono i posti e occorrono molti operatori. Qui c’erano due
persone all’inizio e due alla fine addette esclusivamente ai
documenti. Burocrazia, ma assolutamente necessaria. Mi sembra che
addette all’iniezione fossero tre in tre stanze-ambulatorio. In tutto
sette persone.  Di quante ore sarà il loro turno? Per quanti giorni
alla settimana?  Questa è una clinica privata ma convenzionata. Hanno
scelto al meglio ciò che avevano. Spazi limitati, impegno prezioso.
Ma  quante persone possono raggiungere in una settimana, in un mese?
Sempre che la materia prima, cioè le fiale, arrivino regolarmente. E
come si organizzeranno nel caso di assenze dei convocati,  per
utilizzare al completo tutte le dosi così preziose?
Si fa preso a dire di fare in fretta.
Si fa presto a criticare ed anche a pontificare. Forse  i luoghi si
trovano si adattano, si  sanificano.  Non so le persone. Vorrei
sentire un bel coro di volontari, giovani o anziani,  liberi
professionisti o pensionati. Un coro di generosità e di altruismo, un
bel coro umano,  non troppo intristito da discorsi di paghe  e di
compensi.

Diario del coronavirus n. 5

Immagine

Siamo  ancora qui, segregati e in solitudine. Da un pezzo  è passato
il Natale senza  belle tavolate e il  capodanno,  poi a febbraio
niente festa dei quattro compleanni, niente nipoti e progetti. Unico
lumicino l’appuntamento per il vaccino, fissato tra due martedì.
L’ultimo diario del coronavirus era del 15 novembre. Il primo era del
2 aprile 2020 e vi raccontavo la morte per coronavirus  di una vicina
amica.  Ora posso raccontare che qualche settimana fa quello stesso
maledetto  virus è arrivato anche nel mio palazzo, in casa di due
famiglie. Guaio ora  per fortuna superato. Avevo visto l’ambulanza
davanti al cancello, ma non mi sembrava giusto telefonare a casaccio.
Soltanto dopo molto tempo ho potuto sapere che c’è un altro aspetto di
questa tragedia di cui non si parla. I malcapitati si sentono in
colpa, moderni untori, forse appestati e colpevoli. Si sono circondati
di silenzio, hanno rifiutato ogni aiuto, hanno  voluto fare da soli.
Ancora  si chiudono nel silenzio.  Che ho rotto  io, in continuità con
gli scambi di dolci e cibi che avevano colmato un po’ tutto quel
vuoto. Ho saputo con sollievo che hanno avuto  a casa una assistenza
continua e qualificata da parte della sanità pubblica, addirittura
persino dallo stesso  ospedale Spallanzani, ossigeno compreso.
Tuttavia quel silenzio lo confermano e lo mantengono, come una specie
di difesa. Ne ho sentito il peso e il pudore, come una sofferenza
definitiva.
Non mi sembra una bella cosa.
Questo mi porta a pensare agli effetti che questa tragedia mondiale
avrà sulla nostra mente, effetti non superficialmente emotivi , ma
forse più profondi, sociali, forse addirittura morali, definitivi
verso gli altri.
Mi chiedo. Sconfitta l’epidemia, ci ritroveremo più generosi o più
egoisti?  La logica direbbe che dovremmo già da ora essere più
generosi, visto che siamo tutti coinvolti, sia  vicino a casa e nei
confini, che oltre casa e oltre confini.
 Ma c’è anche l’altra possibilità. La banalità del male. Cioè la
tentazione di arroccarsi nella piccola trincea, nella speranza
egoistica di essere tra gli eletti, cioè i risparmiati, e buttarsi
alle spalle tutto il resto, come se non ci riguardasse.
La storia,  in questi tempi con le varie giornate della memoria o del
ricordo, ci dice che spesso la “massa” cioè il popolo, sceglie la cosa
peggiore perché è la più comoda, la più egoistica. Quasi mai l’egoismo
va d’accordo con la solidarietà, con la condivisione, con un progetto
a lunga scadenza cioè per chi verrà dopo.
E’ naturale e quasi automatico  collegare questo pensiero alle vicende
politiche di questi giorni.
Personalmente sono  molto preoccupata e delusa . Possibile che ci sia
bisogno di un San Michele che ci salva dal drago, il vero drago, cioè
la pochezza, la miopia, il personalismo dei nostri partiti che non
sono capaci di trovare dialogo intese incontro. Mi riferisco a
quelli di sinistra, quelli che dovrebbero  perseguire i sogni che
hanno illuminato l’inizio della nostra libertà.   Sono ancora, dopo un
secolo di storia,  ammalati di divisionismo, bravissimi in scissioni e
in  egoismi. Di sicuro  ci salverà per ora il nostro nuovo San
Michele venuto da fuori, ma in realtà resteranno  le macerie ideali, e
le dissoluzioni  organizzative. I partiti spariranno o quasi. Non
resterà  nessuna entità collettiva che possa condurre la battaglia per
i diritti degli ultimi e per un più giusto ed equilibrato ordine
sociale.  Vorrei poter sperare in  una orgogliosa riscossa,  una bella
ribellione al degrado civile,  all’incultura,  all’individualismo,
all’egoismo. Una riscossa collettiva   con forme nuove, strade nuove,
generosità nuova, sogni e progetti alti, cioè il rinnovo  di qualcosa
che non è concreto, ma che può avere conseguenze più che concrete,
concretissime. Qualcosa che si chiama  visione ideale, programma di
lungo respiro, progetto politico. Non si può stare tutti dalla stessa
parte. Sinistra e destra non sono la stessa cosa, anche se
necessariamente andranno ad un confronto,  ad una competizione e a
scelte e accordi lungo la strada.

Ancora sulla scuola

 

Voglio tornare sull’argomento scuola per non cascare nell’argomento
covid19. Ma non si scappa. La pandemia c’è sempre, c’è ancora e lo
sarà per molto.
I giovani e i ragazzi hanno sofferto il taglio di due anni scolastici,
perchè a causa DAD o a causa dei distanziamenti e dei turni alternati
quello che è stato un rattoppo non può essere definito scuola. Non so
se si può dire che sia stato un rattoppo accettabile oppure, come si
dice in veneto che sia “pegior del buso”. Direi che è poco, piccolo,
meglio di niente, meno buono, più ingiusto.
Marco Campione, che di scuola si è molto occupato e si occupa, leggendo quello che avevo scritto ha osservato:

[…] questo contingente sta durando da un anno e ha attraversato due anni scolastici. Questo tempo a scuola non tornerà più. E questa perdita non produrrà effetti uguali su tutti gli studenti. E non parlo solo delle conoscenze o delle competenze, ma anche di tutta la parte relazionale. Per tutti gli adolescenti e per molti dei più piccoli che hanno avuto la sfortuna di vivere in regioni e/o comuni governati da pusillanimi irresponsabili che han chiuso anche le scuole del primo ciclo.
Alcuni hanno avuto e avranno strumenti per « recuperare », molti altri no. E saranno sempre gli stessi a pagare il prezzo. Per me, che intendo la politica come servizio, in particolare servizio per gli ultimi, questa cosa è intollerabile. In senso letterale, nello scrivertelo (ogni volta che lo scrivo o ci penso) mi vengono quasi le lacrime agli occhi. È una ferita alla mia coscienza. E constatare che nessuno lo considera importante mi fa star male.

Ecco, la didattica a distanza ha creato o rafforzato la diseguaglianza.
Va a farsi benedire l’obiettivo di formare dei cittadini consapevoli,
aperti al nuovo e all’intero mondo. Dall’interno di una cella o
casa-prigione, o separati da invisibili ma durissime pareti, bisogna
essere degli Antonio Gramsci per restare legati al mondo e mandare
oltre quei muri pensieri  e ideali alti e generosi. Ragazzi o
ragazzini, senza confronto, senza sorrisi, senza orgoglio, possono
cadere nella indifferenza, nella noia, o addirittura nel rifiuto. A
meno che ci sia una famiglia a supplire.
Voglio sperare che a pandemia superata la scuola tutta affronti con
forza il problema degli svantaggiati, delle vittime. E non  dovrà
occuparsene solo la scuola, perchè ci saranno i dispersi, quelli che
hanno concluso un ciclo e dovranno essere accompagnati nel campo
successivo o nella vita concreta.
Probabilmente sto sognando. Ma credo di sapere che nel prossimo futuro
nemmeno il muratore o il bracciante agricolo potrà fare a meno di
cultura, cioè competenze. Intanto  servirsi appunto delle tecnologie
esistenti, poi la capacità e necessità  di inserirsi in una categoria,
di conoscere e difendere sia i diritti che i doveri. E in aggiunta
saper guardare anche il mondo, che ormai non è più lontano, ma ci
avviluppa e ci condiziona.
In un altro passo della sua lettera,Campione accenna al fatto che non tutti gli insegnanti si ispirano a Montessori, Don Milani e Rodari.  Certo. lo so. Ma allora che ci fanno i sindacati, le facoltà universitarie  e tutte le associazioni ed enti che si occupano di didattica, che stampano riviste e organizzano convegni o corsi di formazione-aggiornamento?  Li vorrei più invadenti, più agguerriti. E siccome non smetto mai di sognare, vorrei che anche la politica mandasse segnali forti, tanto dai seggi di comando quanto dagli avamposti dell’opposizione.

Una ultima annotazione.
Se fin dall’inizio del percorso scolastico fosse  chiesto agli
insegnanti di servirsi della tecnologia per l’insegnamento, sarà più
naturale e più autorevole, poter  addestrare alla scelta, alla
diffidenza e alla pericolosità che vi si nasconde. In rete c’è tutto,
ma quel tutto non è tutto buono e tutto utile. La cronaca recente,
purtroppo ci mette in guardia. Bisogna abituare fin da piccoli a
pretendere di sapere se gli autori o le fonti siano onesti, affidabili
e conosciuti.
Il pericolo ora non può  venire dallo sconosciuto che ti  offre le
caramelle, ma da un piccolo schermo, colorato musicale e sorprendente.

 

Pensieri sulla scuola dopo la pandemia

Il mio primo pensiero  è stato: questa pandemia distrugge la nostra
didattica. Nostra intesa non  la mia, ma a partire da Montessori, Don
Milani e Rodari. Queste ultime di più, perché hanno aggiunto al
rispetto della individualità del bambino, l’obiettivo di preparare il
cittadino democratico, Cioè con i valori della solidarietà, della pace
e della collaborazione. Cioè non solo preparare l’individuo singolo,
preparato e competente, ma il cittadino inserito nella collettività,
consapevole e partecipe del destino di tutti e dei problemi di tutti.
E per preparare alla coscienza collettiva, la classe deve diventare
una comunità, dove si cammina insieme, ci si aiuta e ognuno dà il
massimo che può.
La didattica a distanza è proprio l’opposto. Ognuno è solo,
prigioniero della sua strumentazione a volte nemmeno adeguata. Già è
stato detto e soprattutto si è visto, che per imparare occorrono anche
le emozioni, i sentimenti. Cioè la vicinanza, gli sguardi, le
amicizie, le collaborazioni.  Mancano ai ragazzi e mancano agli
insegnanti. E si è visto che i più deboli sono rimasti indietro,
distanziati o addirittura perduti.
La didattica a distanza ha lasciato troppe vittime, ma non si può
tornare indietro.
Cioè, si può ripartire utilizzando anche ciò che abbiamo dovuto per
forza adottare.

Cerco di riflettere.
All’inizio c’era la matita, la penna e il calamaio, poi la
stilografica la biro i pennarelli.  Accompagnati sempre dalla carta
del quaderno e dal libro di testo stampato , in più gessetti  e
lavagna. In tempi abbastanza  vicini,  avrebbe potuto esserci la
macchina da scrivere. Ripenso a quella vecchia e scassata che mi sono
fatta regalare e a quanto è stata utile nel caso di dislessia e per
altre lievi carenze.  Sarebbe stato bello che su ogni banco, per un pò
di ore al giorno, ci fosse stata una piccola Olivetti 22 o 44 ! Per la
scuola primaria nessuno ci ha pensato e nemmeno io, che forse avrei
potuto. E’ mancata la capacità rodariana di saper sognare  e ancor più
la volontà di lotta contro la storica miopia politica.
Ora, dopo questo disastro della pandemia la grande voglia di risalire
dovrebbe comprendere anche la scuola, non solo per rimediare, ma anche
per scalare qualche nuovo e alto gradino.
I  ragazzi oggi, anche piccolissimi, sanno maneggiare i telefonini e
non sempre solo quelli dei genitori ma anche personali. E tutti
sappiamo che i telefonini, ormai, sono capaci di tutto. Comunicano e
creano amicizie. Ci si può conoscere e addirittura,  mi risulta che
ci si può persino fidanzare, salvo poi mandare tutto in fumo dopo il
contatto diretto.
 Quando si potrà tornare a scuola io credo che non si potrà tornarci
senza questa meravigliosa dote di strumentazione. Anzi, credo che i PC
a scuola non debbano essere relegati nell’aula a parte da usare a
turni, ma debbano trovare posto sui banchi o tavoli e addirittura  a
partire dalle prime classi, dai sei anni.
Voglio entrare nel concreto. Le nuove didattiche indicavano anche
l’utilità della corrispondenza interscolastica, cioè i gemellaggi tra
singoli, tra classi di luoghi vicini o lontani. Versione nobile del
famoso “amico di penna o di matita” di un allegro periodico degli anni
“60-70. Ripenso alla mia faticosissima e bellissima corrispondenza con
una classe dell’Australia, città di Adelaide. Occorreva spedire per
posta aerea e a peso, dei grossi pacchi, poi aspettare giorni e
settimane per le risposte. In più il calendario non corrispondente,
cioè quando noi avevamo le vacanze natalizie, loro erano in vacanza a
tuffarsi in mare.  Oggi coi telefonini o coi pc basterebbe guardare
l’ora di qua e quella di là e in  più il calendario.  Addirittura
anche guardarsi in video, ridere insieme, fare le smorfie o le risate!
E niente vieta di completare l’esperienza con qualcosa di scritto e di
disegnato.
Ho letto di Don Milani, che  la sua famosa e bellissima lettera ad una
professoressa voleva che fosse scritta da tutti, secondo i nuovi
metodi dei pionieri del MCE( movimento di cooperazione educativa) . Se
ho capito bene, dopo aver scelto lo scopo e indicato la traccia. ogni
allievo scriveva l suo testo che poi veniva tagliato in striscioline
da ammucchiare per argomenti. Quindi ognuno esprimeva il suo giudizio
sull’espressione più efficace . Immagino il molto tempo necessario ed
anche la grandissima emozione e gioia.
. Non ho bisogno di  molte parole per ricordare che ora  col pc o i
telefonini, la frase di  ognuno può essere inviata a tutti gli altri,
e  in breve tempo ognuno può esprimere la  propria preferenza.  Ed,
eventualmente, suggerire una integrazione. Penso stesso percorso per
il resoconto di una visita esterna o una ricerca collettiva.
Sarà difficile?
L’esperienza c’è. Gli strumenti forse sono soltanto da integrare, se è
vero che ci sono i soldi. Io credo che ci vorrà più tempo scuola, cioè
più ore e forse  più giorni. Magari più insegnanti e meglio
valorizzati e pagati.
Insomma, andare al passo coi tempi. Il computer non serve solo agli
architetti o ai chimici. Anche un poeta può scegliere tra la penna e
la tastiera.

Diario n° 4 del coronavirus

Hai un bel dire parliamo d’altro, guardiamo avanti. Non si scappa. Siamo circondati, assediati, inseguiti. La pandemia è troppo invasiva, incombente, spaventosa. Non si può parlare d’altro o ascoltare d’altro. Tristezza. E meno male che non è angoscia, che secondo il filosofo Galimberti sarebbe la condizione più pericolosa per la salute mentale.  L’angoscia è il buio, la tristezza accompagnata dalla speranza è il sentiero sottile e forse lungo per passare dall’altra parte del baratro. Nella piccola chiesa del mio cortile chiamato piazza, a diverse date, ci sono stati due funerali al giorno.  Passano sempre autoambulanze.  Sono arrivati quegli uomini-fantasmi tutti bianchi da capo a piedi a sanificare le scale del palazzo accanto. Sanificare, ecco una parola nuova, oppure disseppellita. Siamo tutti compresi nell’esercito dei sottoposti a tampone. In coda sull’auto per la postazione al San Giovanni, mia nuora insegnante, ha fatto attesa di cinque ore per il tampone, esito giunto in serata. Invece l’amica che mi ha telefonato ieri sera in coda al Santa Maria della Pietà, se l’è cavata in due ore.  A me  l’hanno fatto al pronto soccorso del san Giovanni, per controllo generale.  Altri in famiglia , sono ancora in lotta per ottenere il vaccino contro l’influenza, causa intoppo generale a tutta la macchina sanitaria. Mi risulta che sui mezzi pubblici c’è poca gente. Una curiosità, sono arrivati anche qui, davanti al mio portone, alcuni esemplari di monopattini.  In verità avevo già visto due ragazzi andare avanti e indietro attorno alle macchine in questi cortili, per gioco, credo. Anche questo è un segno dei tempi. A est, oltre l’area verde del pratone, è spuntato un grandissimo pallone bianco, tensostruttura credo si chiami. E’ tanto grande che potrebbe coprire tre o quattro palazzi. Invece deve essere stato installato  per i tamponi dalle auto, forse collegato o intestato agli ospedali di Tor Vergata oppure del Casilino. Non sono riuscita a fotografarlo bene. Ricordo che in quella zone c’erano ancora dei terreni agricoli o comunque liberi. Il pratone è ancora ricco di colori. Il verde resiste, ma sta scolorando in giallo, arancio, ruggine, marrone, olivastro. Nelle prime ore del giorno, spesso ha una lunga collana di nebbia che abbraccia e nasconde gli alberi cancellando e nascondendo le forme, al di sotto e  in contrasto col profilo sbiadito delle montagne lontane. Il mondo vegetale non è attaccato dal covid diciannove. E’ ancora un sorriso per gli occhi e un po’ di consolazione per il cuore. Mi sto organizzando un po’ di terapia……. dei fiori ! Li sto fotografando, per non farmeli scappare. 

L’orchidea che è il regalo di Mariana ha portato a fioritura altri cinque boccioli, senza perdere i primi fiori. E credo che ce la farà ad aprire anche gli ultimi due.  La margherita ha fatto una seconda fioritura che è una vera esplosione di giallo e di bianco, con sorpresa di qualche esemplare violetto spuntato più sotto, chissà come.  I garofanini ce la stanno mettendo tutta per non essere da meno.

Poi quelle strane forme che qualcuno chiama lingue di suocere, si sono riempite di boccioli e tra poco saranno una nuvola mezza bianca e mezza rosa, fiori vistosi, peccato, solo una volta l’anno. Anche le mie piante verdi si stanno comportando bene. Quella di caffè arabico che mi ha regalato Fernando è cresciuta moltissimo, lucente e spessa. L’altra che è regalo di Cinzia splende coi suoi rossi ventagli e la sua tranquilla sicurezza, seguita dalla sorella che dall’angolo del carrello  sotto la finestra, da molti anni mi  espone il suo verde lucente e i suoi rossi cuori da cui spunta quella specie di pannocchia punteggiata e gialla. Consoliamoci con l’aglietto, si dice a Roma. A dire il vero, ci sono ancora e più che mai, gli affetti. Li teniamo vicini da lontano, con quel meraviglioso oggetto che è il telefono. Qualcosa anche col PC, posta elettronica, facebook. Anche noi siamo sotto didattica a distanza, abbreviata in DAD !  Tratteniamo il respiro, tratteniamo le forze, lasciamo che il tempo passi e  che si dimentichi di noi. 

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Parliamo d’altro, guardiamo avanti

Ma che brutto settembre!  Date piene di ricordi, belle e brutte, private e pubbliche.  Intanto parlo della “nostra” . Se non c’era il covid, noi sabato 12 saremmo stati tutti in festa e con i lucciconi agli occhi alle nozze della  mia valorosissima e bellissima nipote. Supplemento di tristezza. Chissà come sarà tra un anno!
Per di più ecco le date pubbliche:  le torri gemelle, la presa di Porta Pia, la morte di Allende, l’ignobile armistizio e la battaglia alla Piramide e alla Montagnola…. Ne dimentico qualcuna altra?
Poi c’è l’oggi, il mio.
Un amico di Valenza Po mi ha chiesto un saluto da leggere ad una cerimonia per ventisette ragazzi uccisi dai tedeschi proprio un  12.settembre. Ci stavo pensando quando ho controllato le date e mi sono molto arrabbiata. Perché io, oltre a essere vanitosa come dice mio figlio,forse sono anche permalosa. Ho constatato che mi si scriveva il giovedì, mi si lasciava soltanto il venerdì per rivolgermi a una cerimonia programmata per il sabato.  Grande scatto di indignazione, furiosa decisione di non risposta. Non sono una macchina sputa luoghi comuni, non sono una che non ha nient’altro da fare! E dire che mio figlio aveva detto che con l’opportuno aiuto avrei potuto inviare un videomessaggio!
Invece la sera, prima di dormire, pensavo a quante cose avrei voluto dire proprio in questi giorni di cronache terribili. L’uccisione a botte di un ragazzo colorato, stupri e omofobia, polemiche ingenerose sulla scuola e offensive per gli insegnanti, stupidaggini sui banchi a rotelle o meno. E tutto in tempo di perdurante pericolo e di ignorantissime esternazioni antimascherine eccetera.
Insomma, il mattino del sabato, ancor prima delle otto, ho scritto e inviato il saluto che qui credo giusto trascrivere.

Carissimo Gio, carissimi tutti,

    grazie per ciò che state facendo. Ricordare queste tragedie è giusto e doveroso. Dovrebbero farlo  i Comuni, le associazioni, le famiglie. E non solo l’8 settembre, il 25 aprile  e il due giugno, Non solo a Marzabotto e a Sant’Anna di Stazzema, ma in tutti e tantissimi luoghi piccoli e piccolissimi dove ci sono state stragi, battaglie, fucilazioni. Dove tanti ragazzi sono morti.
A questi vostri giovani della Banda Lenti è stata rubata la vita. La loro vita affinchè noi sopravvissuti potessimo vivere la nostra, in libertà e in pace. Occorre  ricordarli affinché non torni mai più da noi e nel mondo qualcuno che governi in nome dell’odio, della discriminazione, della presunzione di superiorità.
Ormai noi combattenti e protagonisti non possiamo più raccontare. Del resto i nostri racconti anche se veri ed emozionanti possono essere soltanto circoscritti e limitati.  Perciò credo che  sia  venuto il momento di fare un passo avanti.
Io  chiedo a voi di diventare promotori di un cambiamento profondo. A voi dell’Anpi e a tutti i democratici di iniziare questa nuova lotta di liberazione.
Da ora in avanti occorre che la storia del novecento e della Resistenza venga studiata oggettivamente e profondamente in tutti i cicli scolastici, oltre che dagli storici, dagli artisti e dagli scrittori. Perché il fascismo comincia dove attecchisce l’odio e l’odio comincia dove manca la conoscenza e la cultura.
Nella storia della Resistenza si può trovare tutta l’avventura, tutto l’imprevisto, tutto il bene e tutto il male per  affascinare cuori giovani e meno giovani.  L’indifferenza il più delle volte nasce proprio dalla non conoscenza.
Di nuovo grazie e buon lavoro !
            Teresa
Non so se mi è riuscito bene e se merito le lodi che il dirigente Anpi di Valenza mi ha telefonato poco dopo. E non so ancora che accoglienza ho avuto tra il  pubblico della cerimonia nel pomeriggio.
Ma credo di dover integrare e completare le mie riflessioni e le mie proposte.
Come osserva Liliana Segre, il fascismo è ancora tra noi. Perché l’odio razziale è  sostanza fondante del fascismo, così come la glorificazione della forza legittimata a diventare violenza specialmente contro i più deboli, definiti inferiori.
Nel messaggio ho proposto che venga sollevato con forza il problema dell’insegnamento nelle scuole.  Vogliamo ricordare che la cinguettante Gelmini, di destra Forza Italia, da ministra dell’istruzione ha fatto togliere lo studio della storia ? e tra l’altro anche della geografia, in un tempo dove , senza il Covid, si poteva andare in poche ore nell’altra faccia del pianeta, alle più sconosciute e diverse foreste,deserti, ghiacciai, arcipelaghi e circoli polari! Insomma, in giro per il mondo da analfabeti in geografia e in giro per la vita da  analfabeti in storia, cioè sul cammino preparato da idealisti che ci hanno indicata la strada nobile di progresso condiviso e universale.
A scuola, rotelle o non rotelle, mascherine o distanziamenti, ci sono gli insegnanti  che salvano sempre tutto, sia quando piove nelle aule, cascano i cornicioni, mancano libri o sapone. Saranno ancora loro a rimediare a tutto, a tamponare tutto. Ma se nei programmi non c’è spazio per ore di storia, se non ci sono eventuali corsi di aggiornamento, se non si prevedono visite esterne ai luoghi dove quella storia è stata fatta, se sui testi scolastici non ci sono i capitoli giusti ricchi e obiettivi sulla storia del novecento, passa tra i giovani la bufala che il fascismo ha fatto anche qualcosa di buono ! E tra i cretini che corrono a Predappio, la fantasia di un Mussolini affascinante, decisionista, super.
E’ un fatto che in Italia non c’è stato il taglio col passato. A Berlino c’è un bellissimo e grandissimo Museo della Shoah che è una commovente lezione di storia. A Roma solo Veltroni aveva in mente un museo sull’olocausto di cui nessuno ha parlato  più.  Sulla resistenza c’è quel piccolo museo di Via Tasso, che in sostanza è solo la conservazione di quelle stanze di tortura dove i tedeschi si dilettavano sui corpi di ragazzi, di ufficiali e di intellettuali impegnati nella Resistenza e non tutti comunisti.  Ci sono, tenute benissimo, le Fosse Ardeatine comprovanti la incredibile disumanità nazista. Ma uno degli aguzzini, l’ineffabile Priebke ancora qualche anno fa poteva passeggiare per Roma, ormai centenario, senza essere ne’ insultato ne’ scalfito.
E quelli di Casa Pound cosiddetti fascisti del terzo millennio, sono ancora tranquilli in giro e magari li ritroviamo tra i no-mask e i no-vac e i nazionalisti di Salvini.
Vorrei che l’ANPI il Partito Democratico e tutti gli altri partitini gruppuscoli, transfughi della pietosa galassia di sinistra si unissero almeno su questa battaglia, piccola e indolore. ma essenziale.  Vogliamo che la storia dell’ultimo novecento , fascismo e guerra, resistenza e costituzione, trovino posto nella scuola, in tutti gli ordini e gradi, in tutti i percorsi.
Questo per preparare le generazioni future proprio a quella pace e libertà della filastrocca di Rodari.
E ancora io torno a chiedermi: sarà sufficiente l’insegnamento a fare dei buoni cittadini?  La conoscenza della storia, le riflessioni che ne derivano sono di sicuro indispensabili ma credo occorra anche coltivare la coscienza sociale.
Ho detto in alcune occasioni che il buon insegnante deve anche preparare il buon cittadino, e cioè che nella scuola l’amicizia e la vicinanza non rimangano un fatto privato, ma  possano generare una comunità solidale e collaborativa. Il successo di uno è il successo di tutti, nessuno deve rimanere indietro, ognuno ha un prezioso corredo di possibilità magari nella diversità.  Su questo spero di tentare un approfondimento in sede più opportuna.
Intanto aggiungo un pensiero dedicato alla gioventù delle movide, dello smarrimento e delle deviazioni piccole e meno piccole.
Ho detto: cultura, socializzazione.
E aggiungo : educazione alla solidarietà.  Cioè proposta purtroppo accantonata di cui forse nessuno si ricorda più. ma che in tempo di epidemia si vede subito quanto potrebbe essere decisiva. Parlo del Servizio Civile obbligatorio per tutti, ragazze e ragazzi.
E’ vero  che proprio in questa sfortunata stagione di pericolo, sono molti quelli, giovani e non giovani, che di fatto fanno servizio civile. Una ragione in più per riprendere la proposta e portarla avanti, non solo in Italia, ma intanto in tutta l’Europa.
Ecco. ho finito.
Come si vede, forse sono vanitosa, forse permalosa, ma sicuramente sognatrice.

Diario n. 4, stagione del Coronavirus

Questa lunga stagione di pericolo, questa quarantena prolungata e stiracchiata, ci fa diventare cretini. Ci comportiamo da scemi o da ragazzini.
Ieri è venuto a trovarmi Francesco Maria, che è il ragazzo che ha fatto la tesi sul mio lavoro scolastico meritandosi un bel 110 e lode. Abbiamo fatta una bella chiacchierata. Ci siamo rivisti dopo la sua laurea, sostenuta in stagione di pandemia, quindi senza corona di alloro, senza festeggiamenti e abbracci. Chissà se e  quando avremo la voglia di  rimediare a distanza. o semplicemente di mangiare insieme una pizza o un piatto di cappelletti.
Sembravamo persone serie, fino alla foto al momento del commiato. Come  vedete sembriamo  persone normali. Invece abbiamo giocato come ragazzini o come minorati mentali sulle nostre mascherine!  Come è bella la tua! Me l’ha fatta un amico straniero. Uno dei rifugiati coi quali lavoro. Ne ho una bella anch’io, Me l’ha cucita la mia amica del primo piano. Aspetta che mi tolgo questa bianca e indosso quella rossa a fiorellini. Eccoci qua, documentati come persone normali, ma non c’è nulla di normale.
Non è normale avere sul muso una mascherina, non è normale sceglierla diversa, non è normale pavoneggiarsi per un colore, per una fantasia. O forse tutti cerchiamo di sfuggire alla tristezza, all’angoscia con un tuffo nella leggerezza.
Anche al supermercato o al giardino o per strada e soprattutto nei notiziari televisivi, ci appaiono mascherine di tutti i colori, di tutte le fantasie, simboli e scritte. E’ una gara o una rivalsa contro la sfiga.
Purtroppo abbiamo notato che i politici espongono mascherine manifesto, con strazio di tricolori e di simboli vari.  La
Meloni il tricolore se  l’è messo in verticale, in orizzontale, a destra e a sinistra. Non parliamo di Salvini ch la mascherina   la rifiuta, ne contesta l’utilità e la definisce una limitazione della libertà personale.  E quando la mette, anche lui fa spreco di tricolore, di simbolo del carroccio, di slogan. Ciò che mi ha colpito, l’ho trovato su facebook completo di foto, è un particolare inquietante.  Su una mascherina nera spiccava nettamente la prima parte dello slogan della Decima Mas di Junio Valerio Borghese, proprio quello del golpe fascista fallito. Non so se Salvini è preparato in storia e con lui i  suoi accompagnatori.  Ma il messaggio è chiaro ed è rivolto a quella parte di  nostalgici, tra  i quali Casa Pound e i più ripuliti Fratelli d’Italia .
Ecco un altro uso della mascherina. Come manifesto, anzi come minaccia.
Io sto cercando e usando quelle lavabili, per non intasare i cassonetti.  Mi auguro che la mascherina serva alla fantasia allegra, alla condivisione di propositi, alla vivacità della fantasia. In attesa che il virus diventi meno insidioso, più curabile, e finalmente vaccinabile.
 Quel giorno saremo tutti in strada a gridare di gioia.