In video collegamento

Mercoledì scorso, 21 febbraio, mi sono collegata con otto classi dell’istituto Alessandro Severo di Roma, quartiere San Paolo.

Scuola media, gli studenti più grandi, età attorno ai tredici o quattordici anni. Preparati. Avevano consultato le pagine del mio ultimo libro e addirittura anche di quello precedente. Mi chiedo sempre come questi giovanissimi possano immaginare quell’epoca lontana, così diversa, così incredibile. Per di più deve essere proprio deprimente vedere una vecchietta dai capelli bianchi, non di persona, ma su uno schermo. Volonterosi quei ragazzi e ragazze, bravissimi quegli insegnanti, quelle insegnanti. Si chiamano Milena, Laura, Ilaria, Marco, Maria Teresa. Le domande preparate erano tante, quelle alle quali ho risposto sono state un bel po’. Spero solo di essermi fatta capire.

All’epoca di cui parlavamo avevo quasi la loro età o pochi mesi in più. Mi hanno chiesto della paura. Spero di aver spiegato che la paura era un lusso che ci poteva assalire soltanto poche volte. Non so come possano immaginare un mondo senza telefonini e nemmeno telefoni, biciclette pesanti spesso con le gomme a terra, il coprifuoco e i posti di blocco improvvisi, e la morte sempre attorno, vicina e vera.

Forse riuscirò a rivedere la registrazione delle mie risposte. Spero di aver raccontato la cattiveria del fascismo, non solo per il carcere immotivato inflitto a mio padre e patito da mia madre, ma per la miseria, la fame e il freddo le fandonie belliciste, e le bugie così utili ad ingannare il popolo e a fare le guerre.

Purtroppo, il riferimento all’oggi è facile. Il diritto all’informazione, a conoscere i fatti e i retroscena. L’assurdità delle guerre così vicine e incredibili, la possibilità di dissentire, il diritto di costruirsi il futuro. Che per queste ragazze e ragazzi è proprio vicino, vicinissimo. Vorrei abbracciarli davvero, questi giovanissimi, non per immagine, ma con le braccia. E mi faccio coraggio, per loro e per i miei nipoti e nipotino. Nella convinzione della potenza delle piazze, delle parole, delle arrabbiature, delle idee. E a suo tempo di quell’arma potentissima e silenziosa che è il voto.

Veleni nascosti e dolore in più

Avevo intenzione di parlare di veleni nascosti quando è arrivata la valanga dei dolori scottanti. Metterò per primi i dolori scottanti: cioè le tre guerre in Ucraina Palestina e Mar Rosso, la morte di Navalny, i poveri operai schiacciati sotto il crollo di Firenze.

Pensare a queste realtà sarebbe sufficiente per mettersi a piangere per giorni interi, eppure per sopravvivere o perché ci sono tutte le piccole indispensabili cose da fare, si va avanti, si sopporta. Parlerò solo per me, che da un po’ rimugino una considerazione su alcuni programmi “dei nostri schermi”, tanto velenosi da apparire innocenti e addirittura divertenti. Per primo all’inizio di serata quella gara, con scatoloni contenenti un numero, concorrenti scelti chissà come ma volontari e numerosissimi. Il veleno che io ci vedo è che per vincere non occorre nessun merito, nessuna conoscenza, o competenza o abilità. Tutto è affidato al caso, anzi quasi sempre ad una vera e propria superstizione sulla bontà o cattiveria di un numero. In effetti c’è l’esaltazione del caso, chiamato addirittura fortuna, che in altre parole è superstizione. 

Credo che non ci sia niente di più stupido della superstizione. Per un periodo della mia vita scrivevo delle lettere per un direttore che non le firmava e dovevo riscrivere se la data era di un venerdì!  Dovevo, dovevamo, mettere la data del giorno prima o del giorno dopo, perché il venerdì “portava male”. Giuro che è vero. Eppure, quel direttore era laureato, pluri-promosso, apprezzato e all’apice della carriera. Come si fa a credere a simili stupidità? E appassionarsi allo spettacolo tutto affidato al caso?  In sostanza ho timore che si voglia valorizzare la superstizione, cioè il numero che ti porta bene, addirittura a creare una superstizione personale, quel numero di una certa data, di un certo ricordo! Ma per vincere un briciolo di merito dove è?

Non molto tempo fa all’inizio di serata, condotto da Amadeus, c’era una specie di gara sempre con vittorie in gettoni d’oro, dove ai concorrenti si chiedevano alcune conoscenze o competenze, non troppo difficili in verità. Ma c’era pur sempre una parvenza di merito. Questa gara attuale ha anche un volume e una procedura certamente molto costosa per la Rai, numero di “banchisti” prove, pubblico e non so che altro.

Sempre sulla Rai, cioè sui “nostri schermi” una volta alla settimana c’è qualcosa che si chiama “Tali e quali”. Non so chi possa sopportarlo. Ci sono concorrenti sconosciuti che debbono imitare cantanti famosi in canzoni famose. È premiato chi imita meglio. Ho intravisto addirittura dei camuffamenti e trucchi per assomigliare anche fisicamente a Modugno o a Mina.  Da semplice spettatrice credo di ricordare che gli interpreti non debbano “copiare”, ma interpretare! Ogni canzone, specie se è bella, non può avere una sola voce, un solo tono, un solo sorriso.  Ogni cantante e persino ogni persona, la può e la deve interpretare, cioè metterci il suo cuore, la sua emozione, il suo soffio personale, intimo, il suo accento. Come in tante altre vicende della vita non si deve copiare, ma ricreare, rifare, personalizzare. Forse la Rai, cioè chi la dirige, desidera un pubblico, cioè un popolo, di imitatori acritici, di gente che aderisce ad un modello, che non ha niente di suo da mettere in più o diversamente. Pensate a tutti i valori a tutte le verità di cui abbiamo bisogno e vi verrà la pelle d’oca a pensarli tutti inghiottiti, assorbiti e accettati tali e quali per sempre. O almeno il più a lungo possibile.

Insopportabile televisione

SANREMO, ITALY – FEBRUARY 06: Loredana Bertè attends the 74th Sanremo Music Festival 2024 at Teatro Ariston on February 06, 2024 in Sanremo, Italy. (Photo by Daniele Venturelli/Daniele Venturelli/Getty Images )

Abbiamo tutti simpatie e antipatie, nella vita e nei personaggi o programmi televisivi.

Da un po’ mi accorgo che quello che era indifferenza sta diventando antipatia, disprezzo, disgusto. Mi riferisco alla televisione che in questo nostro mondo dell’immagine ha ancora un grande peso. Poi la mia parte “civile” mi fa una domanda: “cosa mi ha fatto di male questa persona (attore, conduttore, politico, ecc.) per essermi così insopportabile, così disprezzabile, così condannabile? Debbo rispondere che il male non lo fa a me personalmente, ma alla verità, alla imparzialità, alla giustizia o addirittura al buon gusto. Quasi sempre al diritto di informazione che è alla base del nostro vivere democratico, nato dalle fatiche e dai dolori che ho visto personalmente da ragazza.

Non voglio riferirmi alla rete, che conosco poco e poco me ne servo. La televisione fa ancora la parte più importante. Basta guardare al fenomeno Sanremo. Io non lo guardo, anche se apprezzo e amo la musica sia in forma alta, classica o storica, che leggera, canzoni o stornelli. Di musica l’umanità ha bisogno, è una forma di cultura che ha il potere di farci star bene, Ma questa carnevalata televisiva non solo mi disgusta ma mi fa dubitare e riflettere amaramente, su singole persone che su fenomeni generali.

Intanto l’invasione.

Io che non guardo le serate, ugualmente so tutto, perché tutto il resto televisivo ne ripete e commenta. Non si scappa. E qui ritorno alle mie antipatie. Non dirò mai i nomi o i programmi che non sopporto da poco tempo o da tanto tempo. Dirò che su Rai mi resta in Raitre alla sera il “caro Marziano” di Pif e la scheggia luminosa di “il cavallo e la torre” di Marco Damilano, diventato amico da quando mi ha contattato mesi fa. Mi resta anche Geo, sebbene mi abbia ormai insegnato tutti i modi di fare il formaggio. Dei telegiornali non voglio giudicare, perché bisogna pur sceglierne uno se si vogliono le notizie. Spero che ritorni “Via dei matti” da cui imparavo qualcosa sul mondo della musica. A volte ci sono documentari interessanti qua e là, Più in là, direi, visto che vado sempre su reti non Rai: Fabio Fazio sulla Nove e su la Sette molto di ciò che resta: “di martedi” di Floris. Vi si è aggiunto con le sue “Parole” e il raggrinzito grande Vecchioni, il bravo Gramellini. In più c’è anche Corrado Augias, a volte troppo serioso ma sempre importante.

Mettetevi un po’ nei miei panni. Faccio fatica a leggere, tanto che spesso mi devo aiutare con una lente. Come tutti i vecchi che ancora sono svegli, casco spesso a cercare in tv, dove posso, visto che in reti “difficili” come Sky o sulle piattaforme come Netflix non riesco ad andare. Una delle sere sanremesi ho trovato un vecchio filmato che ricostruiva con verità la immane tragedia del Vajont. Sarebbe saggio evitare cose tristi, ma a volte non riesco a scappare.

L’altra opzione sarebbe stato un filmato sugli ultimi giorni di Hitler. Bella scelta, ammetterete. Giusta – si fa per dire – la seria e veritiera ricostruzione di quella tragedia. Alla fine, per curiosità e ancora commossa e piena di tristezza su quei veri e impuniti colpevoli, passo su RaiUno e da Sanremo mi appare un bel primo piano della Loredana Bertè coi suoi capelli blu e quella vivace gonnellina che ne mostra le gambe fin su, poco oltre l’inguine! Giuro che non l’ho fatto apposta, cioè con coscienza, ma il mio cervello ha fatto un tuffo, ha proprio detto un NOOO e istintivamente ha spento tutto. Salvo riaccendere poco dopo. La Bertè canta bene e ha diritto di acconciarsi come le va, come crede che le convenga. Ma io ho il diritto di schifarmi, di immaginarla vestita meglio. ricca solo dei suoi tesori, voce, competenza, conoscenza. Mi dispiace sentirmi vecchia e fuori tempo, ma per fortuna ho ancora la possibilità di giudicare, di rattristarmi o di gioire. Limitatamente, anche di scegliere. Oppure di decidere la sera dopo, di vedermi l’ultimo atto di Sanremo, anche se non tutto. Grande carnevale, a volte indovinato, a volte grattugioso, urticante con la realtà esterna, dove piove e incombono trattori irosi, freddo, discussioni, fango, e notizie di bombe, cadaveri, e bimbi affamati a piedi nudi nella fanghiglia. Addirittura, ormai affagottati dentro quelle file di teli bianchi. Terribili, da non credere. L’umanità non ha giudizio né potere. La folla è sempre pronta a farsi ingannare o addormentare. Perciò le guerre sono ancora e sempre possibili. E vicine, oggi, Sanremo o non Sanremo!

Cognomi e grandi orchestre

Da poco è stata modificata la procedura sul cognome da attribuire ai nuovi nati. Non mi sembra molto razionale, da quello che ne so. Non ho nemmeno chiesto se la regola è in vigore e come abbiano ragionato i genitori nell’attribuire il cognome al mio bellissimo e carissimo bisnipotino.  Ricordo invece con chiarezza che al Ministero prima e a scuola poi, io mi firmavo Vergalli sebbene fosse doveroso firmarsi col cognome del marito. Il segretario che era burbero e antipatico qualche volta mi rimproverava, ma io non perdevo tempo a contestarlo, e continuavo.  Ancora prima questa regola la dovevamo mettere in pratica. Per un breve periodo ero distaccata a Novara all’ufficio che tra l’altro rilasciava le tessere ferroviarie per diritto agli sconti agli insegnanti. Le destinatarie erano quasi tutte donne e quasi tutte sposate, quindi con due cognomi. Dovevamo compilare quei tesserini con inchiostro indelebile su moduli verdolini dove non potevano esserci correzioni . Lo spazio era poco e avevamo trovato il modo di provare su fac-simili quando i nomi e cognomi erano troppo lunghi. Così: nome di battesimo poi cognome da maritata e in seguito la dicitura “nata” e cognome di nascita. Ricordo il  dramma quando una collega era  vedova e risposata.  Abbiamo dovuto scrivere .”Maria Rossi, ved. Bianchi, nata Verdi”  Immaginate nomi meno brevi scritti appiccicati  su due righe. Di quei tesserini ne ho ancora una copia rilasciata dal provveditorato agli studi di Roma il 21 settembre 1983. E’ rilasciata ad una certa Vergalli in Truffi Teresa. Dentro, accanto alla foto mi firmavo “Teresa Vergalli  in Truffi”. Direi che c’era un po’ di confusione sotto il cielo. Nei passaporti che ancora ho, trovo Vergalli ved.Truffi Teresa sia nel  1996 che nel 2002, e finalmente nel 2007,  soltanto Vergalli Teresa . Non so se è il caso di riderci o di rifletterci. So, però, che sembra una piccola cosa, ma è importante.  Per il simbolo: paternità prevalente cioè superiore, oppure parità? Alberi genealogici? Proprietà, ereditarietà? Famiglie amichevoli o contrapposte? Nomi che evocano significati, o mestieri, e che suonano bene?  Insomma, a me sembra che il diritto di scelta condivisa sia una buona cosa.  Sulla facoltà di mettere i due cognomi ho qualche dubbio.

Sono tornata all’insegnamento nel 1976 e sono certa di aver sempre firmato col mio cognome di nascita. Per orgoglio cocciuto e anche perché mio marito aveva ruoli importanti nell’INPS e nel sindacato e ne volevo tenere  riserbo. Al Ministero ero sempre nelle segreterie particolari, dove i registri delle firme o non c’erano o restavano in quelle stesse stanze. Sembra un privilegio, ma era pagato con la elasticità degli orari, cioè a volte si restava molto dopo le 14 oppure al pomeriggio, gli straordinari non avevano fine, se il ministro o un sottosegretario volevano la copia di un atto o dovevano trovare ben scritta una risposta ad interrogazione parlamentare. Oppure perché dimenticavano  che  tu eri là nullafacente ad aspettare che qualcuno si ricordasse di dirti che potevi andare.

Ho ripensato a queste cose l’altro giorno alle scene riprese a Pesaro che diventa capitale della cultura. 

C’era una orchestra importante tutta di donne.

Le  orchestre sinfoniche o classiche nella mia vita hanno avuto una strana e circoscritta importanza. A differenza dei miei figli che erano sempre immersi nella musica, classica o giovane, io da stonata e da incompetente, non ho mai dato molto peso a quest’arte, anche se ai miei scolari con qualche aiuto ho fatto imparare e cantare sia l’inno nazionale che il va pensiero. Più gli stornelli romaneschi.

Da molti anni, invece, ho preso l’abitudine di aspettare ed ascoltare il concerto di capodanno da Vienna, direttori vari, programmi vari. Mi incuriosiscono i vari strumenti e i vari suonatori. Solo dopo qualche anno mi sono accorta che non c’erano donne tra quei suonatori. Nemmeno all’arpa, o ai violini. Poi ho saputo che, finalmente, dopo molte vivaci polemiche di pubblico e critici, la regola che intimava a quel consesso di essere esclusivamente maschile, cominciava di anno in anno ad essere cancellata. Cominciarono piano piano  a comparire le donne musiciste. E io cominciai di anno in anno a cercarle notando purtroppo che erano sempre  poche.  Poi ho visto che ci sono donne che dirigono quelle grandi orchestre  e sono pure brave.

Ecco che l’altro giorno, dietro ad una direttrice donna giovane e carina, mi accingevo come d’abitudine ad individuare e contare i visi femminili.  E vedevo tante donne! Anzi, TUTTE donne!!!!  Una intera orchestra, con tutti gli strumenti, anche i  più imponenti o pesanti.  Ne sono rimasta entusiasta.  Qualcuno, poi, l’ha sottolineato e raccontato.

Io, stonata, poco competente e poco informata , ne sono stata e ne sono felice, felicissima.

E chissà perchè mi sono ricordata dei cognomi e delle firme. Insomma, è il cammino delle donne, ancora recente, ancora lungo

Però sulle orchestre, d’ora in avanti, siccome la musica è uno sport per tutte le età e tutti i sessi, ho l’augurio di vedere sempre uomini e donne insieme, giovani e meno giovani, magri o cicciuti, belli e meno belli. E tutti bravissimi.

Guerra. 25 aprile

Guerra!  Da non credere. Eppure continua. Eppure ci riguarda.

Non solo per solidarietà o per simpatia, ma per quello che possiamo o vogliamo fare in concreto. I fuggiaschi ucraini che accogliamo, Gli aiuti in armi e in sanzioni con etichetta Europa che mandiamo.

Poi è appena passato il 25 aprile. Da ricordare e da reinterpretare.

Da sopravvissuta quale sono ho dovuto esserci. A ricordare, a commentare, a riflettere.

Mi è piaciuto parlare con tanti scolari e studenti.

 La mia diffidenza sulle tecnologie dei contatti a distanza si è modificata un po’ a favore. Con i collegamenti in video si perdono le strette di mano, gli abbracci e moltissimi sguardi diretti. Magari anche qualche occhio lucido o qualche sbadiglio. In compenso si arriva a molti e a moltissimi. Mi si dice che ho parlato, o che mi hanno ascoltato, migliaia di ragazzi, quasi tutti di Reggio Emilia, ma anche infilati dal milanese, senza contare quelli di Roma, condotti da insegnanti mie amiche o da comitati Anpi.

L’eco più grande, di fatto, è quello degli schermi televisivi. Mi hanno conosciuto su LaSette per i ripetuti brevi collegamenti e inaspettatamente anche su ReteQuattro in alcuni spot in omaggio alla data della liberazione.

 E soprattutto, la sera di domenica 24 aprile, nel programma di Fabio Fazio su RaiTre a “Che tempo che fa”.

Non mi sono ancora rivista con calma, ma i moltissimi commenti mi fanno credere di essermi espressa con i miei pensieri.

Ero molto preoccupata, perché in diretta è sempre possibile zoppicare. Anche perché sono enormemente dispiaciuta per le troppe polemiche e i troppi  azzecca garbugli che ancora imperversano.

A me credo spettasse l’onere di dare ai giovani una briciola di informazione e suscitare curiosità, su quella “stagione di dolore armato” che è stata la Resistenza.

Nonostante mi siano stati lasciati molti minuti, credo si sia compreso soltanto qualcosa.

Qui, con più tempo e spazio, mi va di aggiungere o illuminare.

Intanto che non sono stati pochi mesi, ma ben diciotto, cioè quattro trimestri. Sempre chiedono  cosa abbiamo provato in quel 25 aprile.  In trasmissione ho detto sollievo, grande sollievo, sollievo gioioso.

Realisticamente non poteva essere felicità. Noi siamo arrivati a Reggio città il 24 e gli alleati ancora arrancavano con i loro grossi automezzi dalle disastrate strade del nostro appennino, interrotte fatte saltare in più punti dai nostri stessi bravissimi sabotatori, cioè gli esperti di esplosivi. Eravamo stanchissimi per la lunga camminata, per le ore non dormite, per i piccoli  scontri e per il dolore  degli ultimi morti o feriti, a volte saltati sulle mine disseminate dai tedeschi in fuga.  Eravamo   sporchi di polvere e sudore, spesso tormentati dai pidocchi o dalla scabbia, con le gengive doloranti e gonfie a causa del cibo buonissimo ma sbagliato di quelle ultime settimane che era  sempre  e soltanto formaggio grana reggiano strappato ai tedeschi dalle gloriose faticosissime rapine dei partigiani di pianura, i cosiddetti SAP, cioè squadre, cioè contadini o lavoratori anziani oppure giovanissimi, con accanto  e alle spalle e in vedetta le loro donne, le tante donne.  Donne sempre doloranti ma sempre accorrenti e fantasiose.

 In città è stata fotografata la corsa festosa che ci è venuta incontro, con molte donne in abiti corti e sandali ortopedici- autarchici – poveri. Io ricordo solo la stanchezza, il sollievo di entrare in quella sede Gil dove da studentessa andavo a far ginnastica perché alle magistrali non c’era la palestra.  Ricordo di essermi seduta per terra, e di aver respirato, respirato, respirato. Di sicuro avrò aggiustato sulle ginocchia la gonna del mio vestito corto di cotone e mi sarò rannicchiata in quel golfino sferruzzato a mano da lana ricavata disfacendo qualcos’altro. Non ricordo se pensavamo a festeggiamenti. Ricordo solo la voglia di dormire e la volontà di andare a casa, cioè venti chilometri oltre, appunto per dormire ma dopo aver abbracciato mamma e fratello e soprattutto dopo un ricco ritorno all’acqua, al sapone e a biancheria pulita.

Mio padre non era lì con me. Lui era sceso a est, dalla provinciale con la brigata centoquarantaquattro, e da quella parte erano passati già i cingolati , o carri armati, accolti festosamente e omaggiati con mazzetti di fiori di campo dalle ragazze felici, emozionate e curiose di vedere per la prima volta persone di colore. Abbiamo saputo dopo che erano soldati brasiliani, entrati in guerra come alleati degli Stati Uniti.

Subito dopo, stordimento per disordinata pioggia di notizie vicine e lontane. Sollievo per aver scampato chissà come l’assalto dei pidocchi ma non una sospetta irritazione della pelle, prontamente aggredita e fermata da polveri o pomate molto diffuse in quei tempi.  Invece non ho scansato una stranezza sopportata e superata senza medico e medicine. L’abbiamo definita “orticaria” perché prudeva. Ma se osavi grattarti o massaggiarti, la zona si gonfiava mostruosamente, dura e tesa. Se era un occhio diventavi un mostro.  Mi difendevo con occhiali da sole e me ne stavo a casa. In pochi giorni il fenomeno è passato. Tutti in famiglia abbiamo creduto che la colpa fosse di quel troppo formaggio e che il rimedio fosse stato quelle scorpacciate di radicchi e verdure che a casa potevo godermi.

E finalmente è arrivato il primo maggio, con la grande festa in paese, piazza del municipio, balcone con l’altoparlante e io che con voce tremante annunciavo gli oratori, che erano i miei comandanti e persino mio padre che con tre sole parole, credo abbia ringraziato per essere stato incaricato di reggere il comune come “sindaco della liberazione”.

Ecco, se potete, immaginate quei giorni della fine della nostra guerra. Non riesco ad essere fiduciosa in un nostro prossimo primo maggio altrettanto festoso e ottimista. Questa di adesso, è una guerra inaspettata, assurda e addirittura cattivissima, forse più velenosa di quella di allora.

Guerre

Non volevo scrivere più di coronavirus che pure non è per nulla scomparso, e stavo mettendo a fuoco tante  riflessioni sulla scuola.  Invece mi ritrovo  nell’incubo di  dover pensare e parlare di guerra. Guerra di oggi, vera, presente, sanguinosa, disperata.

Chiediamo, pretendiamo, invochiamo trattative, accordi, incontri, mediazioni, intese di pace. Aspettiamo che  capi di stato ,  capi di eserciti, capi di diplomazie trovino punti di incontro, che poi chiameremo accordi.

Pretendiamo e chiediamo che queste persone potentissime con in testa  Putin trovino l’accordo, cioè l’incontro, cedendo su qualcosa di grandissimo per ottenere qualcosa  di  altrettanto grande, e noi, nel nostro piccolo troviamo il modo di non andare d’accordo sul dare o non dare le armi agli ucraini. Come dire ” fate gli eroi, fatevi massacrare a mani nude” perché noi possiamo avere la pace. Sono stata al congresso romano dell’Anpi. Non ho voluto intervenire, non per mancanza di argomenti ma per non aggiungere fuoco al fuoco.

Com’è che le sinistre trovano sempre il modo di dividersi, di separarsi, di trovare il pelo nell’uovo, di beccarsi come i polli di Renzo? e com’è che le destre, vedi SalviniMeloniBerlusconi, trovano sempre la lucidità di compattarsi?

Dopo queste parole amare voglio fare una piccola riflessione sui comici, cioè quelle persone che scelgono di farci ridere o sorridere. Parto dalla Litizzetto, che a volte può sembrare esagerata nei temi, che ha scritto ai semplici soldati russi una lettera che sembra terra terra ma che punge terribilmente. E ripenso al sarcasmo di Gigi Proietti  e ancora più indietro a Totò, che nessuno ormai definirebbe soltanto come comico.  Non so abbastanza della figura del presidente ucraino, ma quando lo sento dileggiato perchè ex comico mi vien da pensare a questi nostri personaggi e per di più mi risulta che nel curriculum di questa persona c’è anche una laurea in materia pochissimo comica, cioè legge.

E qui mi fermo. Il dolore è troppo forte. Tutto è così assurdo, così fuori dal tempo e dalla storia che sembra un incubo, un brutto sogno.  Speriamo di svegliarci e di tornare a sorridere.

I “no tutto”, la storia e il dolore

Comincio dall’ultimo. Dal colpo al cuore nel vedere quell’assalto alla sede della CGIL nazionale. Ero qui da sola e gridavo no no, nooo  !!! , e cercavo tra quella folla intorno qualche segno diverso, di qualcuno che esprimesse sorpresa o dubbio o un logico dissenso. Nessuno che gridasse “cosa fate, non si fa” o qualcosa di simile. O che cercasse di allontanarsi. Non sapevo che poco prima da piazza del Popolo era stata annunciata e preordinata l’eroica azione dei redivivi squadristi. E mi sono ricordata dei racconti antichi sull’assalto giusto cento anni fa alla cooperativa del mio paese Bibbiano, sede dei sindacati e leghe bracciantili.

Ci metto le foto. 

L’edificio era sorto con i soldi dei cittadini, piccole quote, famiglia per famiglia, poi lavoro non pagato dei muratori, edificio dignitoso, tre piani più l’interrato, cantina, spaccio cooperativo, sedi e uffici, e all’ultimo, in alto, le stanze per albergo o locanda. Le sedi e uffici erano quelle delle organizzazioni sindacali o leghe bracciantili, partiti di sinistra o molto vigorose entità cooperative.

Questi, appunto, i veri obiettivi dell’assalto, i veri oppositori,  cioè i nemici del nascente fascismo. Un  edificio alto come il palazzo del municipio, che era ed  è un bell’esempio della edilizia nobiliare ottocentesca.  Anno 1921, esattamente cento anni fa,  assalto e  devastazione , opera di una squadraccia arrivata da altrove.  Seguono divieti di qualsiasi attività,  sostituzione violenta dell’amministrazione comunale, poi la volontà di distruggere quell’edificio troppo significativo.

In un primo tempo persino più della metà dei nuovi consiglieri comunali si esprime contro  quell’assurda decisione demolitoria . Soltanto nel 1925 riescono a deliberare in quel senso e i due consiglieri che  ancora votano contro vengono costretti a dimettersi con accompagnamento di insulti e gogna pubblica. La demolizione è portata a termine nel 1926. I materiali ricavati sono dati al miglior offerente. Ovviamente nessun risarcimento a nessuno, anzi esaltazione per una così significativa impresa.

Per chi l’avesse dimenticato o fingesse di non saperlo, il fascismo ha preso il potere e se lo è mantenuto con tre modalità di violenza. La prima è la distruzione, assalto e devastazione delle sedi sindacali o case del popolo o cooperative. La seconda modalità di lotta è il “valoroso” uso del manganello, cioè le bastonate ai singoli oppositori. La terza modalità di lotta è  invenzione, continuata  negli anni, il famigerato uso dell’olio di ricino, cioè umiliazione pubblica, dispetto e sberleffo.  Tutto questo accanto agli arresti, cioè galere e confino per chi non ha potuto fuggire all’estero prima delle chiusure delle frontiere.

La scena dell’assalto alla sede CGIL in Corso d’Italia è stata  una triste replica di violenze decisamente fasciste per modalità, stile, odio. 
Dobbiamo  chiederci come è potuto accadere.

Le risposte sono tante. A me sembra che manchi la conoscenza storica e il giudizio morale-culturale. Troppa sottovalutazione e troppa tolleranza verso gruppi nostalgici e mistificatori. Quanti pellegrinaggi a Predappio, quante curve di tifosi negli stadi, quante Casa Pound e Forza Nuova, quanti manifesti evocativi, addirittura marce con saluto fascista, addirittura monumenti a Graziani. Tutta  una sottocultura o leggenda di un fascismo bonario e affascinante, un Mussolini grande capo virile e volitivo, nessuna violenza in Africa, Grecia o Balcani. Equiparazione tra foibe e campi di sterminio, paralleli impossibili con le esecrabili violenze di sinistra o con la estranea Unione Sovietica. Fastidio e ostilità contro il grande e inedito fenomeno della Resistenza partigiana. E tutto questo in mancanza di qualcosa che certamente si doveva fare. Ho già detto che nelle scuole non è arrivata la storia degli ultimi cento anni. Non per responsabilità degli insegnanti ma a causa dei programmi e dei tempi, Qualche volta per mancanza di competenze o di fonti. Qualche volta anche per timore della reazione di genitori apertamente nostalgici e intolleranti.  Tutti noi ex partigiani negli anni siamo andati nelle scuole, ma la nostra testimonianza non poteva riempire tutto il vuoto perché personale, ristretta ai luoghi e alle persone.  Mi sono chiesta come mai in Italia non ci sia un Museo della Shoah, come c’è a Berlino dove ho visto quella fantastica bellissima grande costruzione culturale severa ed emozionante che è una vera e completa lezione di storia. Un museo della Shoah e della Resistenza a Roma lo aveva in programma  Veltroni, ma non ne ho sentito parlare più.  In giro per l’Italia non so. A Roma abbiamo quelle piccole stanze di via Tasso, che sono testimonianza più che museo. Abbiamo una piccola dignitosa e utilissima Casa della Memoria, sede di associazioni e luogo di incontri. Più importanti e grandiose, le commoventi  Fosse Ardeatine, che sono monumento e ricordo, ma non possono spiegare tutto. E io ritengo non abbastanza frequentate.

Ultima riflessione. I moderni fascisti, tipo Casa Pound che si dicono essere quelli del terzo millennio, spesso cercano un parallelo con violenze di sinistra. Io penso che gli eterni bastian contrari di estrema sinistra sono quelli che per  volere tutto e subito  . ottengono il nulla o addirittura  fanno andare indietro la storia. Tanto per rinfrescare la memoria chiedo di ricordare le vicende degli anni di piombo, delle brigate rosse che con le loro follie hanno fermato un possibile percorso di condivisione e pacificazione, forse simile  alla mitica  e sognata “democrazia progressiva” di togliattiana definizione.  E come battuta finale, ricordo che oggi,  fuori dal governo Draghi c’è solo la Meloni a destra e la sinistrasinistra a sinistra. 

Non più coronavirus

Non più diario del coronavirus, ma diario di rabbia, dolore, delusione, paura.

Mi sembra che ci sia poco da stare allegri. Nel mondo con l’Agfanistan e simili, si va indietro di vent’anni e credo in sostanza di secoli. Da noi vediamo alla luce del sole degli autentici fascisti mascherati da antigreenpass e da paladini della libertà. Che si permettono di manifestare e di menar le mani, che imperversano in rete con minacce e falsità colossali, senza che nessuno li metta in galera o li faccia stare zitti. Nel privato due lutti e non per covid. Una cara amica che vedevo poco ma che invidiavo per l’irruenza combattiva, ancora troppo giovane e forse troppo sola. E l’altra, così originale anche nella musica, che muore in pochi giorni non lontano da suo padre, che ha superato da un pezzo gli ottanta anni ed ha in dura sorte di veder morire una figlia. 

Dolore e rabbia anche per il fuoco, che è divampato violento, improvviso e vicinissimo, in quel prezioso corridoio  verde di cui andavamo fieri e che avevamo difeso a suon di assemblee e a  forza di firme per ottenerne la inedificabilità. Le fiamme arrivavano e arroventavano  anche le mie finestre al settimo piano e ci son voluti molti getti di idrante molti voli di elicotteri per impedire che fossimo arrostiti anche noi, o le nostre cose, come quei poveracci del palazzo di Milano. La rabbia è pensare che ci sia stata una mano criminale o forse degli interessi di qualche grosso progetto, per mirare a questi sessantaquattro ettari liberi che credevamo preziosi per questi due quartieri, Don Bosco e Romanisti,   che non è giusto definire periferia. La rabbia cresce se si pensa che proprio qui vicino, a pochi chilometri, abbiamo le due più grandi caserme e sedi dei vigili del fuoco, tra Capannelle e Don Bosco. I chilometri sono pochi, ma la burocrazia ha la millemiglia, per tutti i minuti che al telefono ti risponde solo una voce registrata che dei tuoi strepiti se ne fa un baffo, mentre  il fuoco si avvicina  ai nostri pioppi non nostri, così frondosi ma che nessuno viene a contenerli nello strepitoso sviluppo.  Così che io, sebbene mi senta poco paurosa, mi vesto in fretta e  furia in vista di un possibile ordine di sgombero. Per di  più, eccezionalmente sono in casa da sola. I ragazzi sono in macchina, abbastanza vicino, e  stanno tornando. Devono affrontare il fumo nero che non ci fa vedere le case di fronte e che è arroivato fino alla via Tuscolana, portando cenere e frammenti di vegetali bruciati.   Intanto,  quei poveri “pompieri” devono scalare la spianata delle canne, così appetitose per il fuoco,  aprirsi un varco per spruzzare quell’acqua e liquido speciale che poi, a fine lavoro, lascia del bianco sul nero, come se fosse  cenere,

Ora abbiamo un panorama tristissimo, cioè tutto marrone scuro e marrone chiaro e ancora volano i frammenti di foglie bruciate o disseccate che stanno provvisorie su quelle che erano belle fronde verdi ed ora sono stecchi. Molta solidarietà e contatti coi vicini di casa. Ultima ironia. L’ala destra del nostro palazzo è nata come cooperativa dei vigili del fuoco, e ancora qualcuno ci abita. E’ una fetta di Roma e una fetta d’Italia. Dovremo persino votare per il comune. Votare per cambiare, visto che in questi ultimi anni non c’è stato  sviluppo. Il grande Renzo Piano, architetto, chiede la cura delle periferie. Pure i quartieri mediani hanno bisogno di attenzioni. Il verde, sia per gli allarmi che per i problemi ambientali è certamente una delle priorità. Concretezza, efficienza, opere minori ma anche visioni  alte . La grande vela di Calatrava che si vede dal mio balcone, ha bisogno di essere completata secondo quel  progetto dell’Università di Tor Vergata che era addirittura messo in modellino in mostra alle scuderie del Quirinale, che non ho potuto  fotografare. Occorre gente concreta, poco chiacchierona, molto pronta al sacrificio.  Perché guidare una città, e in più guidare una Roma, è  opera per gente coraggiosa che sappia lavorare e penare non solo individualmente, ma in squadra.

Quindi auguri al quartiere, auguri a Roma, auguri a noi. E a Roberto Gualtieri che mi sembra il più giusto.

Diario del coronavirus n. 9 (nove!!!)

Da non crederci. Ancora qui a parlare di coronavirus! Dopo un anno e mezzo? Invece sì, e ancora più arrabbiati. Nonostante il vaccino. Colpa dei troppi cretini che se la prendono con quelli che ne sanno più di loro perché si permettono di salvargli la vita.

Questo virus così sfuggente e carogna, che scappa anche dall’assedio del vaccino e ci fa dubitare ancora su tutto. Infatti   vedo tantissimi girare tra parco e giardino ancora con la mascherina. Questo dev’essere un quartiere di gente virtuosa. Molti sono già andati nelle seconde case. Molti hanno ripreso un po’ a lavorare. Lo vedo dal movimento delle auto in cortile. Anche qui, come in molte strade di Roma, si sono formate quelle montagne di immondizia attorno ai cassonetti stracolmi. E io me la  prendo con la ragazza straniera che non mette la non riciclabile nel cassonetto giusto!

Mi chiedo come siamo diventati. Ora che ci concediamo di  sostare un po’ in giardino a leggere il giornale con sorpresa ci troviamo degradati, ingobbiti, tremolanti. Il pensiero reciproco è ;”Mamma mia, come si è ridotto!” Io lo penso degli altri e gli altri lo pensano di me. Anche negli appartamenti ci sono novità dolorose e novità curiose. Nuovi abitanti, figli o nipoti di chi se ne è andato. Qualche straniero, addirittura indiano che va e viene.

E un arrivo di molti cani. In questi otto piani ce ne sono sette, tra cui uno bianco e grande che deve essere molto malato perché quasi non cammina. Poi ci sono i gatti, tre. Il più grosso lo vedo stravaccato in balcone con accanto il suo topolino-giocattolo, quasi sempre ignorato. Ecco come siamo diventati.

In compenso i volontari del giardino  tagliano  l’erba e le siepi, attivano l’irrigazione, riverniciano le panchine, non rimproverano più quelli che passano dai vialetti con i cani al guinzaglio. Tagliando l’erba tagliano i tappeti di margherite e ultimamente anche una iniziale invasione di fragoline, piccole e rosse e chissà se sono saporite. Nei mesi scorsi abbiamo avuto i tappeti di viole, che ormai hanno raggiunto tutti gli spazi. Rimasto interrotto il rinnovo dei giochi per i bambini e il rifacimento del relativo tappeto erboso.

Tra aprile e maggio ho avuto il riconoscimento della medaglia d’oro per Mimma. Tutto molto ridotto e soffocato dall’attualità dolorosa e litigiosa. Dovremo riprendere il discorso perché c’è ancora troppo da sapere della storia passata, delle sofferenze delle donne, del cammino ancora lungo e accidentato che ci aspetta. Di scuola, di cultura, di storia e di storie ne abbiamo ancora bisogno. Chissà. Vorrei che questa fosse la mia ultima nota col titolo di coronavirus.

Diario del coronavirus n.8 (otto)

Ecco, sono ancora qui a parlare del coronavirus. Il numero uno era del 2 aprile 2020  e il numero sette era del 21 marzo 2021. Sembra di essere in un film di fantascienza o dell’orrore o di favola. Invece stiamo ancora qui a fare bilanci, considerazioni, tristezze. Ormai siamo in tanti già vaccinati, anche perché in questi quattro palazzoni siamo ancora in molti che ci abitiamo fin dall’inizio, cioè dagli anni settanta. Allora eravamo giovani coi figli piccoli. Quindi è logico che, se ci siamo ancora, dobbiamo per forza avere un sacco di anni. I figli sono andati altrove, lontano poco o tanto. Nella mia scala due coppie di genitori ce li hanno in  Inghilterra e gli altri a Parigi, ma tutti e due i figli e addirittura con nipoti. Con un mondo così grande e così vicino, noi qui, in queste scale prigionieri in casa, ostaggi di un esserino piccolissimo e cattivissimo e non del tutto conosciuto. Per fortuna portiamo ancora tutti  la mascherina a causa delle incognite e  dei pericoli possibili. Ho detto per fortuna perché sono contenta di nascondermi di non dovermi truccare per quel po’ che ancora mi concedevo.  Mi meraviglio che se ne vadano all’altro mondo quelli che sono più giovani di me! Proietti, Battiato, la Fracci ! Ma erano ancora giovani, potevano ancora dirci qualcosa, raccontare, parlare cantare, ballare. Ora noi che siamo del loro secolo possiamo solo riattingere alle loro parole, ai loro esempi. E sperare che i giovani siano abbastanza curiosi per andare a scoprire quelle vite ormai concluse, ma che  parlano ancora,  sostengono ancora.

E’ passato l’8 marzo, il 25 aprile e tra pochi giorni sarà il due giugno. Tutte date che “prima” erano importanti. Ora tutte ridotte a tristi passi solitari per andare ad accarezzare una corona o sotto una lapide dimenticata nel traffico o nella campagna. Ci sarebbe da ricordare anche Marzabotto, cioè Montesole, e Sant’Anna di Stazzema, così maltratta e malcompresa da un brutto film americano.  Tutte cerimonie e riti che dopo la pandemia sono sicura che non ci saranno più, o meglio, ci saranno ancora in forma diversa, meno  calda purtroppo,  e con meno ricordi. E’ giusto che sia così. Ma non sarà giusto ignorare o dimenticare. Dovrà esserci la memoria migliore, cioè la conoscenza storica, la riflessione, la consapevolezza e la distinzione tra il giusto e l’ingiusto, tra i carnefici e le vittime, i colpevoli e gli innocenti. In questa prospettiva devo chiedere scusa a chi in rete si sarà imbattuto nella mia faccia antica e nelle mie parole. Siamo rimasti in pochi a poter testimoniare o raccontare. Qualcosa ho rifiutato, ma altro ho accettato.

Mi è stato chiesto il ricordo del voto nel 1946 per la Repubblica. Qualcuno si meraviglierà di sapere che molti partigiani che avevano combattuto e rischiato la vita in quel sogno di Italia non più comandata dai Savoia, al momento decisivo non  hanno potuto votare. Diritto  negato. Bisognava avere 21 anni. Anch’io non ho potuto votare. Ancora più strano, visto che già dal 45 andavo per paesini e casolari a cercare di far capire la bellezza e la giustizia del voto, specialmente per le donne, così storicamente neglette e mortificate.  Mi è venuta la curiosità di controllare. C’è un elenco completo e ufficiale dei combattenti della 144^ Brigata Garibaldi dove risulto anch’io con mio padre. Ci sono 614 nomi, seicentoquattordici nomi con data di nascita. Su quei 614 ne ho contati 101, centouno, che non hanno potuto votare perché troppo giovani. E non sono tutti, perché non ce l’ho fatta a considerare anche quelli nati nel 1925, ma nei mesi successivi, cioè nel secondo semestre che di sicuro non hanno potuto andare alle urne.  Abbastanza maturi per morire ma non per votare! Altre stranezze ormai dimenticate. Si votava in due giorni, la scheda era da ripiegare e da incollare, quindi alle donne niente rossetto per rischio annullamento del voto, poi conteggio lunghissimo e attesa angosciosa fino alla sera del 10 giugno, arrivata ai più  nella giornata dell’11 e confermata in Cassazione il giorno 18 , Non ricordo i pensieri, di certo le preoccupazioni di tutti. Ma tutti, giovani e vecchi, impegnati a ricostruire  e quindi a dimenticare. Tutti, però, con la certezza che tutto doveva cambiare, che tutti i sogni cioè tutti i bisogni, non potevano più essere ignorati.  In qualche modo, con grandi dolori e con grandi pericoli siamo andati avanti.  Non si risolve mai tutto. Nel pubblico e nel privato si fanno passi avanti e talvolta passi indietro. Chissà dopo questa pandemia. Si spera nel passi avanti. E che i giovani abbiano la vista lunga e larga come l’intero mondo. Larga. diversa e sempre un po’ più giusta.

Diario n. 7 del Coronavirus

Siamo ancora qui. Dopo un anno, più stressati e meno fiduciosi di
prima. Eppure la ragione ci dovrebbe assegnare pensieri più positivi,
visto che  è stato trovato il vaccino e che da qualche settimana è in
funzione la grande battaglia, cioè  piccole siringhe contro invisibile
assassino.
Un anno fa avevamo bandiere e cartelloni alle finestre, c’era il
problema di fare la spesa, ma abbastanza pazienza, forse curiosità del
nuovo, fiducia nei governanti e nei professori. Adesso è diverso.
Siamo stremati e impazienti. I politici ci hanno deluso o fatto
arrabbiare. Gli scienziati ci hanno stancato con dubbi e distinguo.
Ora possiamo solo aggrapparci alla speranza che la macchina
vaccinatoria prosegua senza altri cavillosi intoppi, che almeno in
estate i già vaccinati  possano incontrarsi o muoversi, che i ragazzi
possano ancora andare a giocare al pallone e prepararsi per la scuola
com’era prima.
Sono andata a fare la seconda dose del  vaccino. Eravamo tutti lì, in
quel retro della clinica dove erano state messe delle panchine.
Avrebbe dovuto essere primavera, ma faceva freddo. Quelle panchine
sapevano di frigorifero. In compenso organizzazione perfetta, ancora
più veloce dell’altra volta. Qualche persona chiamata risultava
assente o in ritardo, ma avanti in fretta con chi c’è, in grande
anticipo per me.  Foglio di via con le istruzioni per il dopo. Cioè
non ritenetevi al sicuro, non ritenetevi inoffensivi almeno per un
po’.  Io ho pensato e l’ho detto all’infermiera: ” Ormai non morirò di
covid, ma certamente di qualcos’altro”. Tutte due abbiamo aggiunto :”
Più tardi che si può”.
Infatti ho ancora troppe cose che mi aspettano. Un matrimonio troppo
rimandato, ancora due lauree imminenti, le possibilità di lavoro del
più grande, un altro traguardo di pensione. E’ proprio vero che non si
è mai contenti.  Non dovrei lamentarmi. E’ vero che sono diventata un
po’ un rudere, ma sto ancora in piedi, faccio cappelletti e tortelli,
mi meraviglio del nipote  ormai forzuto e villoso ricordandolo così
burroso e morbido nei suoi anni primi. E la ragazza, sempre un po’
trattenuta, ma magnifica anche da grande  e ammirevole per capacità e
traguardi raggiunti, che forse mi darà la gioia di diventare bisnonna.
Quindi, di che mi lamento? Tra l’altro, domenica, ultimo giorno di
zona gialla quindi di una certa libertà, mi sono piombati in due con
grandissimo scatolone e altri fagotti. Non avrei mai creduto che quel
desiderato  estrattore fosse  così grande e ingombrante, più adatto ad
un bar che a una cucina di casa. Poi tutti e due, figlio e nipote, a
montare quell’aggeggio, a studiare le istruzioni e addirittura  a fare
quell’estratto che mi porgono trionfanti, quale aiuto al mio bisogno
di vitamine e vegetali. Siamo in tre ad apprezzare il risultato. Io ci
sento la prova di affetto, la cura, la preveggenza.
Tra i vicini di casa, so che alcuni  sono andati al primo appuntamento
per il vaccino. Alcuni per età e altri per professione, insegnanti e
forze dell’ordine. Tutti mi dicono dell’organizzazione perfetta, della
amorevolezza degli operatori, della fiducia. Chi è stato alla “nuvola”
ha commentato la bravura. ” Ma allora anche noi siamo capaci di  fare
le cose per bene!” Peccato che, poi, per due o tre giorni, quella
perfetta organizzazione sia rimasta sigillata e muta per la stupida e
inutile polemica sul vaccino Astrazenica. Per cui, intanto siamo in
ritardo.
Ormai  non c’è che da aspettare la primavera, sia quella geografica
che quella economica-sociale. E  prepararci ai cambiamenti che di
sicuro dovranno investirci e ai quali dobbiamo far fronte. Ognuno per
quel che sa e per quel che può. Io, intanto penso e mi preoccupo per
la scuola, come sarà e come dovrebbe essere. E spero poter dare
qualche aiuto.

Diario del coronavirus n. 6

Evviva! Ho fatto il vaccino, prima dose. Ieri l’altro, martedì.
In famiglia siamo già quattro ad aver fatto questo primo passo. Mio
fratello a Bibbiano la scorsa settimana, sempre prima dose,
all’ospedale di Montecchio, circa cinque chilometri da casa sua, dove
c’è andato da solo in macchina. E lì ha trovato anche qualcuno che
affettuosamente lo ricordava per i suoi nove  anni da sindaco. Non ha
dovuto prenotarsi, l’hanno convocato credo in base all’età. Lui dice
che in Emilia in sanità tutto funziona al meglio, anche per scelte
degli anni passati.
Qui a Roma, dove per i vaccini andiamo abbastanza bene, ha aperto la
serie dei vaccinati la nonna di mio nipote che mi ha preceduto nella
clinica Villa Aurora.
Secondo caso,  sabato scorso all’ospedale san Gallicano ha avuto la
convocazione la suocera di mio figlio. Tutto è filato liscio, tempo
mezz’ora o poco più. Anche per lei, nessun problema  successivo.  Noi
facciamo parte della categoria degli ultraottantenni .
E gli altri, quelli un po’  meno giovani? E’ già prenotata tra due
settimane mia nuora nella categoria insegnanti, indipendentemente
dall’età.
Aspettiamo, sia le decisioni che gli arrivi delle  fiale.
Ed ora vi racconto.
Ero abbastanza preoccupata, perché avevo visto i filmati di Milano
Niguarda, con tutti quegli anziani in attesa o in sosta all’aperto,
stretti nei cappotti, molti in piedi e qualcuno seduto, compreso un
centenario  intervistato.  Se avessi trovato una situazione simile
immaginavo già una bella scena di protesta  tipo non avete rispetto
dei vecchi, non sapete come sono piccole le loro forze,  non ricordate
che siamo stati noi a costruire il vostro benessere , eccetera,
eccetera.  E addirittura il rifiuto, il ritorno a casa, viaggio
inutile.
Non conoscevo quella clinica, molto lontana dal mio quartiere scelta
da mio figlio per molte e giustissime considerazioni.
 Devo raccontare che ieri mattina Roma era non nel Lazio ma in pianura
padana. A proposito di cambiamento climatico, la nebbia nascondeva
tutto, campagna e profilo della città.  Anche dal raccordo il
paesaggio sfumava in quella nuvola di fumo bianchissimo ma
impenetrabile.  Soltanto dopo molti chilometri, poco accosto allo
svincolo dell’  Aurelia ci ha raggiunto un po’ di sole.  Traffico
pazzesco, come se non fossimo in quasi quarantena tutti quanti.
Alla clinica, immersa nel quartiere Boccea, problema parcheggio,
previsto. Per questo siamo venuti in tre. Io e la ragazza amica
seguiamo i cartelli. Siamo in leggero anticipo. Corridoio attorno
all’edificio, quindi piccolo spazio tra le mura con già un gruppetto
in attesa, compreso un signore in sedia a rotelle. Gli altri
vecchietti, me compresa, visibilmente in ansia e in curiosità. Primo
sollievo, nessuna scala o scalino. Abbastanza presto si affaccia una
giovane infermiera che chiama i convocati secondo un elenco.
Abbastanza presto e addirittura in anticipo sul previsto chiamano
anche  me. In un ingresso abbastanza piccolo ci sono due ragazze in
camice e casco su due tavolini che prendono i documenti fanno le
domande, mi chiedono di firmare su uno schermo col dito! E che
orribile firma mi è venuta! Ma è andata bene lo stesso. Quindi avanti
in un corridoio con alcune porte. Sono le stanzette dell’iniezione. Un
lettino una sedia, un computer. Parole cortesi, affettuose,
rispettose. Non sento nemmeno la puncicata. Quindi l’attesa nel
corridoio, dove le sedie distanziate permettono la sosta di quindici
minuti.  Sono senza orologio, ormai soppiantato dal telefonino,
rimasto nella borsa affidata alla mia accompagnatrice. Ma c’è
l’orologio alla parete. Con noi ultra eccetera, vengono anche due
giovani donne. Di certo sono due infermiere o  persone che lavorano
qui con qualche  mansione. Alla fine  si va nell’ufficio spalancato di
fronte, per le formalità di addio, consegna del certificato con la
convocazione tra quattro settimane per il richiamo, nessuna
raccomandazione o allarme di effetti collaterali.  E via, fuori, nel
sole, a rintracciare la macchina che ci riporta a casa, sollevati,
riconoscenti, e non troppo stanchi.
La ragazza, che è una intraprendente amica, mi fa la foto-ricordo. Nel
mezzogiorno e nel pomeriggio, a casa, tutto normale. Nessun effetto
collaterale. Mio figlio, senza motivo apparente  si ferma sia a pranzo
che  tutto il pomeriggio a lavorare  al suo pc.  Non ho chiesto, ma
immagino volesse accertarsi dell’assenza dei tanto chiacchierati
effetti collaterali.
 Ora alcune riflessioni.
Per vaccinare un numero più alto possibile di cittadini occorrono le
fiale, occorrono i posti e occorrono molti operatori. Qui c’erano due
persone all’inizio e due alla fine addette esclusivamente ai
documenti. Burocrazia, ma assolutamente necessaria. Mi sembra che
addette all’iniezione fossero tre in tre stanze-ambulatorio. In tutto
sette persone.  Di quante ore sarà il loro turno? Per quanti giorni
alla settimana?  Questa è una clinica privata ma convenzionata. Hanno
scelto al meglio ciò che avevano. Spazi limitati, impegno prezioso.
Ma  quante persone possono raggiungere in una settimana, in un mese?
Sempre che la materia prima, cioè le fiale, arrivino regolarmente. E
come si organizzeranno nel caso di assenze dei convocati,  per
utilizzare al completo tutte le dosi così preziose?
Si fa preso a dire di fare in fretta.
Si fa presto a criticare ed anche a pontificare. Forse  i luoghi si
trovano si adattano, si  sanificano.  Non so le persone. Vorrei
sentire un bel coro di volontari, giovani o anziani,  liberi
professionisti o pensionati. Un coro di generosità e di altruismo, un
bel coro umano,  non troppo intristito da discorsi di paghe  e di
compensi.

Ancora sulla scuola

 

Voglio tornare sull’argomento scuola per non cascare nell’argomento
covid19. Ma non si scappa. La pandemia c’è sempre, c’è ancora e lo
sarà per molto.
I giovani e i ragazzi hanno sofferto il taglio di due anni scolastici,
perchè a causa DAD o a causa dei distanziamenti e dei turni alternati
quello che è stato un rattoppo non può essere definito scuola. Non so
se si può dire che sia stato un rattoppo accettabile oppure, come si
dice in veneto che sia “pegior del buso”. Direi che è poco, piccolo,
meglio di niente, meno buono, più ingiusto.
Marco Campione, che di scuola si è molto occupato e si occupa, leggendo quello che avevo scritto ha osservato:

[…] questo contingente sta durando da un anno e ha attraversato due anni scolastici. Questo tempo a scuola non tornerà più. E questa perdita non produrrà effetti uguali su tutti gli studenti. E non parlo solo delle conoscenze o delle competenze, ma anche di tutta la parte relazionale. Per tutti gli adolescenti e per molti dei più piccoli che hanno avuto la sfortuna di vivere in regioni e/o comuni governati da pusillanimi irresponsabili che han chiuso anche le scuole del primo ciclo.
Alcuni hanno avuto e avranno strumenti per « recuperare », molti altri no. E saranno sempre gli stessi a pagare il prezzo. Per me, che intendo la politica come servizio, in particolare servizio per gli ultimi, questa cosa è intollerabile. In senso letterale, nello scrivertelo (ogni volta che lo scrivo o ci penso) mi vengono quasi le lacrime agli occhi. È una ferita alla mia coscienza. E constatare che nessuno lo considera importante mi fa star male.

Ecco, la didattica a distanza ha creato o rafforzato la diseguaglianza.
Va a farsi benedire l’obiettivo di formare dei cittadini consapevoli,
aperti al nuovo e all’intero mondo. Dall’interno di una cella o
casa-prigione, o separati da invisibili ma durissime pareti, bisogna
essere degli Antonio Gramsci per restare legati al mondo e mandare
oltre quei muri pensieri  e ideali alti e generosi. Ragazzi o
ragazzini, senza confronto, senza sorrisi, senza orgoglio, possono
cadere nella indifferenza, nella noia, o addirittura nel rifiuto. A
meno che ci sia una famiglia a supplire.
Voglio sperare che a pandemia superata la scuola tutta affronti con
forza il problema degli svantaggiati, delle vittime. E non  dovrà
occuparsene solo la scuola, perchè ci saranno i dispersi, quelli che
hanno concluso un ciclo e dovranno essere accompagnati nel campo
successivo o nella vita concreta.
Probabilmente sto sognando. Ma credo di sapere che nel prossimo futuro
nemmeno il muratore o il bracciante agricolo potrà fare a meno di
cultura, cioè competenze. Intanto  servirsi appunto delle tecnologie
esistenti, poi la capacità e necessità  di inserirsi in una categoria,
di conoscere e difendere sia i diritti che i doveri. E in aggiunta
saper guardare anche il mondo, che ormai non è più lontano, ma ci
avviluppa e ci condiziona.
In un altro passo della sua lettera,Campione accenna al fatto che non tutti gli insegnanti si ispirano a Montessori, Don Milani e Rodari.  Certo. lo so. Ma allora che ci fanno i sindacati, le facoltà universitarie  e tutte le associazioni ed enti che si occupano di didattica, che stampano riviste e organizzano convegni o corsi di formazione-aggiornamento?  Li vorrei più invadenti, più agguerriti. E siccome non smetto mai di sognare, vorrei che anche la politica mandasse segnali forti, tanto dai seggi di comando quanto dagli avamposti dell’opposizione.

Una ultima annotazione.
Se fin dall’inizio del percorso scolastico fosse  chiesto agli
insegnanti di servirsi della tecnologia per l’insegnamento, sarà più
naturale e più autorevole, poter  addestrare alla scelta, alla
diffidenza e alla pericolosità che vi si nasconde. In rete c’è tutto,
ma quel tutto non è tutto buono e tutto utile. La cronaca recente,
purtroppo ci mette in guardia. Bisogna abituare fin da piccoli a
pretendere di sapere se gli autori o le fonti siano onesti, affidabili
e conosciuti.
Il pericolo ora non può  venire dallo sconosciuto che ti  offre le
caramelle, ma da un piccolo schermo, colorato musicale e sorprendente.

 

Parliamo d’altro, guardiamo avanti

Ma che brutto settembre!  Date piene di ricordi, belle e brutte, private e pubbliche.  Intanto parlo della “nostra” . Se non c’era il covid, noi sabato 12 saremmo stati tutti in festa e con i lucciconi agli occhi alle nozze della  mia valorosissima e bellissima nipote. Supplemento di tristezza. Chissà come sarà tra un anno!
Per di più ecco le date pubbliche:  le torri gemelle, la presa di Porta Pia, la morte di Allende, l’ignobile armistizio e la battaglia alla Piramide e alla Montagnola…. Ne dimentico qualcuna altra?
Poi c’è l’oggi, il mio.
Un amico di Valenza Po mi ha chiesto un saluto da leggere ad una cerimonia per ventisette ragazzi uccisi dai tedeschi proprio un  12.settembre. Ci stavo pensando quando ho controllato le date e mi sono molto arrabbiata. Perché io, oltre a essere vanitosa come dice mio figlio,forse sono anche permalosa. Ho constatato che mi si scriveva il giovedì, mi si lasciava soltanto il venerdì per rivolgermi a una cerimonia programmata per il sabato.  Grande scatto di indignazione, furiosa decisione di non risposta. Non sono una macchina sputa luoghi comuni, non sono una che non ha nient’altro da fare! E dire che mio figlio aveva detto che con l’opportuno aiuto avrei potuto inviare un videomessaggio!
Invece la sera, prima di dormire, pensavo a quante cose avrei voluto dire proprio in questi giorni di cronache terribili. L’uccisione a botte di un ragazzo colorato, stupri e omofobia, polemiche ingenerose sulla scuola e offensive per gli insegnanti, stupidaggini sui banchi a rotelle o meno. E tutto in tempo di perdurante pericolo e di ignorantissime esternazioni antimascherine eccetera.
Insomma, il mattino del sabato, ancor prima delle otto, ho scritto e inviato il saluto che qui credo giusto trascrivere.

Carissimo Gio, carissimi tutti,

    grazie per ciò che state facendo. Ricordare queste tragedie è giusto e doveroso. Dovrebbero farlo  i Comuni, le associazioni, le famiglie. E non solo l’8 settembre, il 25 aprile  e il due giugno, Non solo a Marzabotto e a Sant’Anna di Stazzema, ma in tutti e tantissimi luoghi piccoli e piccolissimi dove ci sono state stragi, battaglie, fucilazioni. Dove tanti ragazzi sono morti.
A questi vostri giovani della Banda Lenti è stata rubata la vita. La loro vita affinchè noi sopravvissuti potessimo vivere la nostra, in libertà e in pace. Occorre  ricordarli affinché non torni mai più da noi e nel mondo qualcuno che governi in nome dell’odio, della discriminazione, della presunzione di superiorità.
Ormai noi combattenti e protagonisti non possiamo più raccontare. Del resto i nostri racconti anche se veri ed emozionanti possono essere soltanto circoscritti e limitati.  Perciò credo che  sia  venuto il momento di fare un passo avanti.
Io  chiedo a voi di diventare promotori di un cambiamento profondo. A voi dell’Anpi e a tutti i democratici di iniziare questa nuova lotta di liberazione.
Da ora in avanti occorre che la storia del novecento e della Resistenza venga studiata oggettivamente e profondamente in tutti i cicli scolastici, oltre che dagli storici, dagli artisti e dagli scrittori. Perché il fascismo comincia dove attecchisce l’odio e l’odio comincia dove manca la conoscenza e la cultura.
Nella storia della Resistenza si può trovare tutta l’avventura, tutto l’imprevisto, tutto il bene e tutto il male per  affascinare cuori giovani e meno giovani.  L’indifferenza il più delle volte nasce proprio dalla non conoscenza.
Di nuovo grazie e buon lavoro !
            Teresa
Non so se mi è riuscito bene e se merito le lodi che il dirigente Anpi di Valenza mi ha telefonato poco dopo. E non so ancora che accoglienza ho avuto tra il  pubblico della cerimonia nel pomeriggio.
Ma credo di dover integrare e completare le mie riflessioni e le mie proposte.
Come osserva Liliana Segre, il fascismo è ancora tra noi. Perché l’odio razziale è  sostanza fondante del fascismo, così come la glorificazione della forza legittimata a diventare violenza specialmente contro i più deboli, definiti inferiori.
Nel messaggio ho proposto che venga sollevato con forza il problema dell’insegnamento nelle scuole.  Vogliamo ricordare che la cinguettante Gelmini, di destra Forza Italia, da ministra dell’istruzione ha fatto togliere lo studio della storia ? e tra l’altro anche della geografia, in un tempo dove , senza il Covid, si poteva andare in poche ore nell’altra faccia del pianeta, alle più sconosciute e diverse foreste,deserti, ghiacciai, arcipelaghi e circoli polari! Insomma, in giro per il mondo da analfabeti in geografia e in giro per la vita da  analfabeti in storia, cioè sul cammino preparato da idealisti che ci hanno indicata la strada nobile di progresso condiviso e universale.
A scuola, rotelle o non rotelle, mascherine o distanziamenti, ci sono gli insegnanti  che salvano sempre tutto, sia quando piove nelle aule, cascano i cornicioni, mancano libri o sapone. Saranno ancora loro a rimediare a tutto, a tamponare tutto. Ma se nei programmi non c’è spazio per ore di storia, se non ci sono eventuali corsi di aggiornamento, se non si prevedono visite esterne ai luoghi dove quella storia è stata fatta, se sui testi scolastici non ci sono i capitoli giusti ricchi e obiettivi sulla storia del novecento, passa tra i giovani la bufala che il fascismo ha fatto anche qualcosa di buono ! E tra i cretini che corrono a Predappio, la fantasia di un Mussolini affascinante, decisionista, super.
E’ un fatto che in Italia non c’è stato il taglio col passato. A Berlino c’è un bellissimo e grandissimo Museo della Shoah che è una commovente lezione di storia. A Roma solo Veltroni aveva in mente un museo sull’olocausto di cui nessuno ha parlato  più.  Sulla resistenza c’è quel piccolo museo di Via Tasso, che in sostanza è solo la conservazione di quelle stanze di tortura dove i tedeschi si dilettavano sui corpi di ragazzi, di ufficiali e di intellettuali impegnati nella Resistenza e non tutti comunisti.  Ci sono, tenute benissimo, le Fosse Ardeatine comprovanti la incredibile disumanità nazista. Ma uno degli aguzzini, l’ineffabile Priebke ancora qualche anno fa poteva passeggiare per Roma, ormai centenario, senza essere ne’ insultato ne’ scalfito.
E quelli di Casa Pound cosiddetti fascisti del terzo millennio, sono ancora tranquilli in giro e magari li ritroviamo tra i no-mask e i no-vac e i nazionalisti di Salvini.
Vorrei che l’ANPI il Partito Democratico e tutti gli altri partitini gruppuscoli, transfughi della pietosa galassia di sinistra si unissero almeno su questa battaglia, piccola e indolore. ma essenziale.  Vogliamo che la storia dell’ultimo novecento , fascismo e guerra, resistenza e costituzione, trovino posto nella scuola, in tutti gli ordini e gradi, in tutti i percorsi.
Questo per preparare le generazioni future proprio a quella pace e libertà della filastrocca di Rodari.
E ancora io torno a chiedermi: sarà sufficiente l’insegnamento a fare dei buoni cittadini?  La conoscenza della storia, le riflessioni che ne derivano sono di sicuro indispensabili ma credo occorra anche coltivare la coscienza sociale.
Ho detto in alcune occasioni che il buon insegnante deve anche preparare il buon cittadino, e cioè che nella scuola l’amicizia e la vicinanza non rimangano un fatto privato, ma  possano generare una comunità solidale e collaborativa. Il successo di uno è il successo di tutti, nessuno deve rimanere indietro, ognuno ha un prezioso corredo di possibilità magari nella diversità.  Su questo spero di tentare un approfondimento in sede più opportuna.
Intanto aggiungo un pensiero dedicato alla gioventù delle movide, dello smarrimento e delle deviazioni piccole e meno piccole.
Ho detto: cultura, socializzazione.
E aggiungo : educazione alla solidarietà.  Cioè proposta purtroppo accantonata di cui forse nessuno si ricorda più. ma che in tempo di epidemia si vede subito quanto potrebbe essere decisiva. Parlo del Servizio Civile obbligatorio per tutti, ragazze e ragazzi.
E’ vero  che proprio in questa sfortunata stagione di pericolo, sono molti quelli, giovani e non giovani, che di fatto fanno servizio civile. Una ragione in più per riprendere la proposta e portarla avanti, non solo in Italia, ma intanto in tutta l’Europa.
Ecco. ho finito.
Come si vede, forse sono vanitosa, forse permalosa, ma sicuramente sognatrice.

Diario n. 4, stagione del Coronavirus

Questa lunga stagione di pericolo, questa quarantena prolungata e stiracchiata, ci fa diventare cretini. Ci comportiamo da scemi o da ragazzini.
Ieri è venuto a trovarmi Francesco Maria, che è il ragazzo che ha fatto la tesi sul mio lavoro scolastico meritandosi un bel 110 e lode. Abbiamo fatta una bella chiacchierata. Ci siamo rivisti dopo la sua laurea, sostenuta in stagione di pandemia, quindi senza corona di alloro, senza festeggiamenti e abbracci. Chissà se e  quando avremo la voglia di  rimediare a distanza. o semplicemente di mangiare insieme una pizza o un piatto di cappelletti.
Sembravamo persone serie, fino alla foto al momento del commiato. Come  vedete sembriamo  persone normali. Invece abbiamo giocato come ragazzini o come minorati mentali sulle nostre mascherine!  Come è bella la tua! Me l’ha fatta un amico straniero. Uno dei rifugiati coi quali lavoro. Ne ho una bella anch’io, Me l’ha cucita la mia amica del primo piano. Aspetta che mi tolgo questa bianca e indosso quella rossa a fiorellini. Eccoci qua, documentati come persone normali, ma non c’è nulla di normale.
Non è normale avere sul muso una mascherina, non è normale sceglierla diversa, non è normale pavoneggiarsi per un colore, per una fantasia. O forse tutti cerchiamo di sfuggire alla tristezza, all’angoscia con un tuffo nella leggerezza.
Anche al supermercato o al giardino o per strada e soprattutto nei notiziari televisivi, ci appaiono mascherine di tutti i colori, di tutte le fantasie, simboli e scritte. E’ una gara o una rivalsa contro la sfiga.
Purtroppo abbiamo notato che i politici espongono mascherine manifesto, con strazio di tricolori e di simboli vari.  La
Meloni il tricolore se  l’è messo in verticale, in orizzontale, a destra e a sinistra. Non parliamo di Salvini ch la mascherina   la rifiuta, ne contesta l’utilità e la definisce una limitazione della libertà personale.  E quando la mette, anche lui fa spreco di tricolore, di simbolo del carroccio, di slogan. Ciò che mi ha colpito, l’ho trovato su facebook completo di foto, è un particolare inquietante.  Su una mascherina nera spiccava nettamente la prima parte dello slogan della Decima Mas di Junio Valerio Borghese, proprio quello del golpe fascista fallito. Non so se Salvini è preparato in storia e con lui i  suoi accompagnatori.  Ma il messaggio è chiaro ed è rivolto a quella parte di  nostalgici, tra  i quali Casa Pound e i più ripuliti Fratelli d’Italia .
Ecco un altro uso della mascherina. Come manifesto, anzi come minaccia.
Io sto cercando e usando quelle lavabili, per non intasare i cassonetti.  Mi auguro che la mascherina serva alla fantasia allegra, alla condivisione di propositi, alla vivacità della fantasia. In attesa che il virus diventi meno insidioso, più curabile, e finalmente vaccinabile.
 Quel giorno saremo tutti in strada a gridare di gioia.

Cronaca numero tre, stagione del coronavirus

Siamo ancora qui, bloccati dalla pandemia.  Qualcosa per forza o per fortuna si è mosso, ci sono lavori riavviati, mestieri ripresi. Qui nel piazzale è abbastanza visibile un movimento di auto,cioè gente che va di nuovo al lavoro e non solo vigili del fuoco, autisti atac o poliziotti. Nei nostri palazzi sono in corso lavori ai solai, alle cortine, agli ascensori.  A fare la spesa ci andiamo senza code, guanti e mascherine ormai d’abitudine.  Nelle ore fresche bambini e nonni  riempiono il giardino.
In famiglia e dintorni abbiamo avuto avvenimenti grandi.  Da sorriso le nascite. La cara nipote reggiana ha messo al mondo un paffuto Edoardo. La vicina ex ragazza del quarto piano ha dato un bel fratellino alla sua  vivace e dolce femminuccia. E qui finiscono le belle notizie.
Tra le brutte, la più nera, il lutto in famiglia. Mio fratello ha perso la sua amatissima moglie. Avrei dovuto intitolare questo scritto a mio fratello per le tante cose che che sto ricordando di lui. Qualcosa ne ho scritto sul mio libro “Storie…” Qui  non lo ricorderò dall’inizio, cioè da quando era piccolo, ma dall’ultimo. Dal suo dignitosissimo dolore attuale.  Dal funerale, iniziato col corteo di macchine dall’ospedale di Montecchio, fino al cimitero di Bibbiano,  affollatissimo. I miei figli, per esserci,  hanno fatto  dall’autostrada la traversata di mezza Italia, andata e ritorno. E non ci si poteva nemmeno abbracciare.  Ma lì, tra quelle lapidi che custodiscono anche le antiche storie della mia famiglia, dei nonni tanto ricordati e amati, è stato visibile e concreto l’affetto e la stima che mio fratello ha conquistato nel suo paese e in tutta la Val d’Enza. Discorsi commossi e motivati,  per primo quello del sindaco carissimo Andrea  e poi di altre e altri,   anche in ricordo di lei, la scomparsa, veramente compagna dolcissima e collaborativa. Alla fine, lui che prende il microfono e ringrazia, distrutto ma lucido e in piedi.
Non c’è solo il covid19.  I dolori e le malattie ci sono ancora. Lei se n’è andata per un ictus,  dopo  una  caduta   e una prima ripresa. Ora mio fratello è solo, perché i figli li ha lontani.  Ha attorno tutto un popolo, che lo stima e lo ringrazia per i suoi nove anni in cui è stato sindaco innovativo e realizzatore e poi per tutto il resto,  prima e dopo, per le scuole, la socialità, la cultura, la memoria.
Il mio dolore è anche per non esserci stata.  Chissà se potrò farlo tra un po’ in Freccia Rossa.
Intanto il virus va avanti e si diverte a prendere di mira i giovani, molti dei quali hanno svoltato in fatalità o in ribellione o in azzardo. Anche noi anziani siamo stanchi, vorremmo qualche giorno di vacanza, o  luoghi nuovi. Il caldo ci limita anche di più. La differenza è che noi siamo consapevoli più che paurosi. I nostri ultimi anni sono  più solitari del giusto. L’altra sera a cena da una cara amica, con un bel gruppetto della nostra preziosa associazione culturale.  Semplicità tanta, giardino fresco, ricordi belli, pensieri nuovi. Allegria poca, ovviamente. Ma si affronta tutto e si resta a testa alta.
Qualcuno dei vicini è in vacanza. Specie quelli che hanno case in montagna o nelle regioni d’origine o genitori nei dintorni.  Gli esperti, gli scienziati, li ascoltiamo e se succede di sentirli un po’ in polemica o in disaccordo tra loro, accettiamo la spiegazione della senatrice scienziata Elena Cattaneo. Lei ci dice che i diversi punti di vista nascono dal fatto che i ricercatori seguono ognuno percorsi di indagine differenti, perchè il virus ha molte facce, molte forze e molte strategie.  Dobbiamo aver fiducia, aver pazienza, aver coraggio.
Verrà il vaccino e avrà il nostro cuore.

Diario della quarantena n. 2

Qui sorrido, anche se non si vede

Bisogna dirlo. E’ difficile sfuggire alla malinconia.  Avevo detto “non preoccupatevi, sarò paziente e fiduciosa. Intanto il mio tempo è fermo. Non quello della natura. Gli alberi erano scheletri ed ora sono nuvole frementi di tutti i colori del verde,  e ci hanno già invaso i piumini dei pioppi  che chissà come fanno ad entrare nelle stanze. Quando c’è il sole al giardino e al piazzale della chiesa c’è abbastanza gente e molti bambini e ragazzi. Da quando siamo nella seconda fase anche le macchine parcheggiate danno qualche segno di vita, si formano dei vuoti e dei cambiamenti. Nel pratone non ci sono più passeggiatori, forse perché ora non è più proibito o si preferisce camminare per strada un po’ più in là.
Domenica forse c’era la messa in chiesa e si sono viste passare un po’ di persone. Ieri c’è stato anche un funerale e mi sembra che le persone fossero molto più delle quindici consentite e non tutte con mascherina.
A  proposito di mascherine anch’io ora ne sono ben rifornita. I figli mi hanno portato alcune di quelle classiche, bianche e azzurre, lavabili. Ieri me ne è arrivata una di quelle a becco, KN95, istruzioni in inglese e un bel fagottino si guanti azzurri usa e getta. Così sono bardata in caso di evasione in giardino per respiro o scarto di rifiuti o scorta di giornali. Quindi non è vero che le mascherine sono merce introvabile e preziosa.  Anzi, ne abbiamo inventate di strane e diverse. Già io ho aperto la strada creativa con la mia raffazzonata mascherina giapponese spaventavirus. La mia amica Vittoria ne ha una di tessuto a quadri coloratissima, opera di sua figlia che ne ha realizzata una serie. In più a me ne è arrivata una bellissima, rossa a fiorellini che definirei lussuosa e perfetta, da grandi firme della moda. E’ opera della mia amica Mirca, che è stata il mio braccio destro negli anni del Comitato di Quartiere, anzi, più del braccio destro. Eravamo  in tre, noi due e il caro rimpianto Agostino.  Non ce ne siamo mai vantati, ma è nostro merito se abbiamo ottenuto il rifacimento del giardino con irrigazione e viali e area giochi. Quante volte siamo andati dai dirigenti del servizio giardini e quante lettere, telefonate, riunioni. Ebbene, questa Mirca, mi ha regalato la sua bella mascherina, perfetta in cuciture e tasca per la carta da forno, adattabile alle mie misure ! Mi potrò pavoneggiare alla prossima uscita!

Con mio figlio Alberto, io con la mascherina grandi firme e lui
con quella KN95 !

Sempre in tema mascherine debbo dire che ho avuto anche la traduzione delle scritte in giapponese! Una mia amica professoressa che ha letto il mio blog, quasi da non crederci, mi ha proposto di farla tradurre da suo figlio che studia lingue orientali. Ho  mandato la foto leggibile, ed ecco la traduzione. Nel telo dove si vede un treno, la scritta esalta la fine della costruzione di un tunnel ferroviario sottomarino a collegamento con una isola piccoletta. tunnel costruito  dai lavoratori edili. Nell’altro telo dove ci sono facce di giovani e di vecchi, si rivendica un diverso trattamento pensionistico, Di questo mio marito mi aveva parlato. In Giappone la pensione veniva data dal padrone, ma solo dopo molti anni di permanenza fedele  cioè dopo una forma di assoggettamento o servilismo.  Non so se tutt’ora in quel modernissimo paese ci sia ancora questa incongruenza sociale.

Teli giapponesi

Intanto anche là circola e forse impazza questo virus che ci accomuna tutti, imbavagliati da questi rettangolini di stoffa, che con la nostra fantasia incarichiamo di sorridere per noi. Mascherine manifesto, mascherine portafortuna , mascherine vanitose!
Non so se abbiamo ancora voglia di parlarci dalle finestre. Il 25 aprile è passato, e qui non si è sentito il canto promesso. Come previsto sono andata in onda, in RAI, in radio, alla Tv dei vescovi.  E’ stata una faticata. Non credevo che fosse tanto pesante un collegamento telematico, con computer che non si collega, con audio che fa i capricci, con immagine penosa. Non ho voluto negarmi perché la memoria è troppo importante e perché le dittature e i fascismi serpeggiano e  scavano sempre anche nel presente. Speriamo nei giovani, negli
studiosi, negli uomini di buona volontà.  Ora lottiamo contro questo nemico comune, inaspettato.  Chissà se ne usciremo migliori.  In ogni caso credo che ne soffriranno di più gli ultimi, i più poveri, uomini o popoli.  Ancora una volta dipenderà da noi.  Ancora una volta dipenderà dalla nostra lotta e dalla nostra consapevolezza. Non sarà il destino, non esiste destino oltre le nostre azioni.

Padellata di gnocco fritto, anche per i vicini

E più che mai  comprendiamo che abbiamo bisogno di competenze, di cultura, di scienza e di onestà.  Non è vero che uno vale uno, che chiunque magari a sorteggio, possa sedere in parlamento.  Non solo serve più preparazione al basso, ma più si sale nelle responsabilità sociali, più sono necessarie persone con  un ricco  bagaglio culturale, una competenza aperta e non settoriale.  Non capisco come si può stare col fucile puntato a criticare il governo i ministri e i presidenti quando nessuno di noi vorrebbe essere al loro posto di fronte a un cataclisma così grande e complicato.  Inevitabile fare errori, ma è degno  di rispetto il coraggio di fare e di decidere.  Se poi i cittadini , cioè noi tutti  ci metteremo un po’ di inventiva, di buon senso e di solidarietà ne usciremo prima.
E sarà la cultura. cioè la scienza e la ricerca a salvarci da tutto. Sarà qualcuno, uomo o donna,  da qualche parte del mondo e in collegamento con altri uomo o donna, a trovare il  vaccino, l’antidoto, la  cura.  E spero che si vergognino e vadano a nascondersi tutti i no-vax, tutti i no-esperimenti su animali, tutti i fustigatori di aziende farmaceutiche o lobby ospedaliere.  E che nessuno più chiuda gli occhi di fronte alle malavite di ogni risma ed abbia il coraggio di non cedere e la forza di denunciare.
La scienza e l’onestà potranno essere il nostro aiuto. Nella libertà e a braccia aperte.

Diario della quarantena

Mi sono detta che forse bisogna scrivere un diario di questa quarantena. Tanto per ricordare anche i dettagli.

Comincerò dalla parte più triste. Una mia vicina, conoscente e quasi amica,poco più che ottantenne, è  morta la settimana scorsa al San  Giovanni di questo virus. Alla notizia ho tremato, perché l’avevo incontrata e chiacchierata qualche giorno prima. Lo scontrino del supermercato mi ha poi precisato che si trattava di diciotto giorni prima. Piccolo sospiro di sollievo e grande tristezza.
Questa Mina, abitava alla quarta scala o portone alla mia sinistra, Scala disinfettata.  Anche la sua vicina e amica, è risultata colpita e con lei  la giovane  badante.  La scena del loro ricovero l’abbiamo seguita qualche sera fa. Lampeggiava una bella e nuova ambulanza, con tre addetti tutti in tuta bianca dalla testa ai piedi.  Dai balconi li abbiamo applauditi, sperando che portassero a casa qualcuno. Invece una voce ha gridato ” Poi riportatecele !”
Anche questa signora la conoscevo.  Suo figlio andava allo stesso liceo di mio figlio. Aspettiamo.
Per obbligarmi a non uscire i miei figli mi organizzano consegne a domicilio.  Stavano progettando un carico  per il prossimo 27 aprile, ma il sistema integrato dei supermercati romani ha dichiarato lo stop. Basta, non accettano ulteriori ordini.  Pazienza. Non morirò di fame, tanto più che, causa data di scadenza delle uova, ho fatto quadrucci tagliolini e tagliatelle. Tra parentesi è un modo di occupare il tempo e insieme di stimolare un po’ l’appetito che con questa clausura si è molto ridotto.  Suggerisco a chi si annoia di inventare ricette, modi nuovi e lunghi di trattare verdure  uova e pangrattato.  Ne ho un vassoio, variegato e appetitoso, che chissà per quanti giorni mi tornerà in tavola.
Ci stiamo telefonando e messaggiando. Da un balcone all’altro non è bello urlarci, quindi succede di telefonarci e guardarci , con l’aggiunta di gesti e sorrisi. L’ascensore ora funziona, perciò i volontari della protezione civile sono saliti senza problemi per portarmi le medicine.  Sarei imbarazzata ad approfittare di questi generosi ragazzi se non fosse che lo debbo a mia nuora, che con i figli da sempre è volontaria alla Caritas ed è stata lei a farmeli arrivare.
Il telefono ci aiuta. A  volte anche la  videochiamata.  Ho potuto vedere che i miei nipoti si sono tagliati la barba e sono diventati bellissimi.  Invece non ho accettato di farmi vedere da un lontano amico, che forse ha sbagliato a digitare, tanto è vero che non ha ripetuto la chiamata.  E’  vero che ogni giorno mi vesto e mi trucco con cura, cioè come sempre e a “tentoni” cioè quasi alla cieca, causa disimpegno del mio occhio sinistro. Il disastro, invece, è nei capelli, cresciuti e indomabili, che sembrano un pagliaio disordinato, per i quali non trovo più ne’ mollette, né elastici.  Corrado mi direbbe:  ” Ma allora sei vanitosa!”  Sì, per quanto consentito sono vanitosa.  Smalto alle unghie, cipria e rossetto. Risultato scarsissimo, per non dire pietoso.
Si fanno scoperte stando ai balconi.  Quanta gente coi cani!  Riflessioni amare sui cani. Anche a me piacciono i cani e ancora di più i gatti.  Ho paura che molti abbiano più amore per i cani che per i bambini.  Infatti educare un cane è abbastanza facile e poi vale per tutta la vita. Per un bambino bisogna inventare ad ogni stagione il linguaggio l’esempio i modi, mano a mano che l’età cambia e i bisogni diventano più complessi.
Tornando all’argomento cani, debbo raccontare che da diversi giorni vedo cani e padroni camminare in mezzo al pratone.  Per chi non lo sa, qui da me chiamiamo pratone un territorio diventato bosco che misura la bellezza di 64 ettari  tra i quartieri di Cinecittà, Romanisti e Alessandrino.  Non so se dalle foto se ne intuisce l’estensione.   Come siano rimasti verdi questi ettari è un caso quasi miracoloso. Era zona destinata a trasferirci cioè costruirci i vari ministeri, secondo quanto vagheggiato dal piano regolatore romano degli anni sessanta.  E’ di proprietà privata, ufficialmente recintato, ma evidentemente con varie falle, visto i tanti camminatori che lo attraversano, con cani o senza cani.  Spero  che dalle foto si intuisca che si tratta di uno spazio veramente grande.  Nel nuovo piano regolatore, con Veltroni sindaco e grazie alla mobilitazione nostra e alle nostre cinquemila firme, si prevedono poche cementificazioni e tutte agli estremi, dalla parte via Togliatti e dalla parte Cinecittà studios.
Ieri, però, proprio dal pratone mi è venuto un brutto colpo al cuore.  Stava bruciando !  Per caso ho visto il fumo e sentito una sirena. Vedevo bene con  quanta rabbia avanzasse la linea del fuoco verso di noi.  Vedevo un solo automezzo rosso dei vigili del fuoco, e mi prendeva una rabbia, una angoscia.  Ripensavo a tre anni fa, quando a luglio un  grande incendio aveva preso tutti gli ettari, con evidenti tre punti di avvio, Le fiamme erano tanto  alte e vicine che arrivavano quasi al mio settimo piano e i miei vetri diventavano caldi, nonostante tra noi e il fuoco ci fosse la strada e al margine fosse  stata gettata acqua a salvaguardia.  Quella volta c’era anche l’elicottero ad innaffiare, diverse autobotti , vigili urbani, polizia, una piscina gonfiabile riempita con l’acqua del nostro condominio.  Dopo l’intera giornata di tanto lavoro e davanti a quell’orribile disastro. mi è venuto di pensare :  ecco perché bisogna pagare  le tasse !
Ecco perché ieri, quell’iniziale incendio mi ha tanto commossa. Era commozione di rabbia. Perché anche ora, come allora , nessuno mi toglie dalla testa che si tratta di tentativi dolosi.  Come può esserci della gente tanto malvagia o ignorante o stupida,  che fa queste cose. Le leggi non permetterebbero edificazioni lucrose, ma questi che agiscono così non tengono in conto le leggi, pensano di avere la forza e l’abilità di scavalcare  ogni legge, ogni regolamento e ogni diritto altrui.
Così come mi rattrista temere che da questo disastro del coronavirus possa rinvigorirsi e guadagnarci la mafia, cioè tutte le mafie, nuove o vecchie.
Così come non posso credere che ci siano persone  esperte tanto da entrare nei sistemi informatici dell’Inps per sabotare le sacrosante decisioni assistenziali decise dal governo.  E’ troppo triste pensare che competenza e forse cultura possano andare a braccetto con criminalità avidità e odio.
Eppure ce la faremo, perché noi cittadini per bene, noi che le leggi le rispettiamo, noi che accettiamo anche le raccomandazioni,  noi che non crediamo alle bufale, noi che sappiamo anche soffrire, siamo più forti, più resistenti, più generosi.
E da domani, se mi basterà la farina, seguirò l’esempio del  mio giovane nuovo amico laureato. Mi ha scritto che sta facendo dei dolci e che li metterà davanti alle porte dei vicini di casa.
 Magari ci metterò un bel biglietto con scritto TANTI ABBRACCI !!!!

Mascherina spaventavirus !

Mi sono cucita una mascherina spaventavirus. Ci si vede una misteriosa scritta in strani caratteri orientali. Se il virus cinese  sa leggere anche il giapponese, forse si commuoverà o forse  gli scapperà da ridere e se ne andrà lontano.
 Ho utilizzato una strana tela stampata di quelle che i giapponesi si mettono intorno al capo. Sono un dono  dei sindacati giapponesi e immagino che le scritte  siano degli slogan rivendicativi. Ne ho altre due, con disegni e scritte diverse.
Stavano  in un cesto delle stranezze, assieme a quelle  nere papaline delle  orientali ex repubbliche sovietiche.
Ritrovamenti frutto della forzata casalinghitudine di questa quarantena nazionale. Mio figlio ha detto che la mascherina non mi serve, dal momento che non debbo uscire per nessuna ragione. Invece mi serve, non solo per lo spirito, ma perché dovrò pure affacciarmi all’ingresso quando la coop mi porterà le provviste, ordinate l’11 marzo e previste in arrivo il prossimo 24 marzo, martedì.
Con la complicazione che non so se avremo in funzione l’ascensore, settimo piano, quattordici rampe!
In balcone ho messo due bandiere, una tricolore e l’altra della pace. Per fortuna da questi tre palazzi ne sono apparse altre, sebbene non tante quanto mi sarei aspettata. Le mie sono spesso arrotolate dal vento  o spinte all’interno, per cui devo sorvegliarle e andare spesso  a sbrogliarle.
Perciò,  vedendo un vicino che ha esposto una bellissima tela con l’immagine ad arco dell’arcobaleno e la sua brava scritta di speranza, volevo fare qualcosa di analogo e mi sono ricordata di un grande telone plasticato , ricordo di una mia andata in Calabria. Se riuscite a leggere  nella foto, vedrete che si trattava di una bella iniziativa a cui ero invitata come autrice e testimone.
In quella occasione quel  telone  troneggiava  in una grande aula magna affollata di liceali. Commovente e bel ricordo.
Sarebbe bello poterlo dipingere nella parte rovescia che è tutta  bianca e metterlo al balcone. Invece non posso, perchè mi mancano i coori. Ho tre scatole di pennarelli che devo regalare a una scuola, ma sono niente rispetto al bisogno. Poi come protrei fare, da sola, ad attaccarlo al muretto del balcone,  così grande e pesante, anche se provvisto di  una serie di appositi buchi per numerosi tiranti.
Insomma, niente da fare.
Proseguendo nella cronaca di questo dramma sanitario,  mi chiedo se  davvero potranno fare la tesi a distanza i nostri cari giovanotti. A Firenze il figlio di Silvana che  deve diventare  medico. Qui alla Sapienza il mio nipote piccolo che il tre aprile deve laurearsi in qualcosa di complesso tra letteratura, cinema e musica. E ancora, questo prossimo giovedi 26 il nuovo amico Francesco che a Roma Tre si deve laureare in scienze della formazione partendo dai miei giornalini scolastici.
Spero proprio che le  nuove “strette” annunciate stanotte dal governo non facciano annullare anche questi  progetti  minimi.
L’alro nipote, già ultralaureato, ha una borsa di studio biennale che doveva concludersi quest’anno e pare essere sospesa,  cioè rinvio di conclusione culturale e di  finanziamento. Con possibile perdita di importanti prospettive in scavi e ricerche archeologiche.
Insomma, questo maligno e mimetizzato virus, prende anche me e non solo perchè sono vetusta , con i miei quasi 93 anni, ma perchè tutt’attorno ho legami, affetti, amicizie.
Amicizie comprese quelle del vicinato, del gruppo di ginnastica, degli amici dell’Anpi, delle colleghe antiche e nuove.  Di quelle che sono indaffarate a fare le lezioni a distanza, come mia nuora con la sua chimica, Titti con la sua letteratura, Romina con la sua storia,  o i tanti professori che in questi anni sono diventati amici.
Un pensiero particolare alla mia terra, a Bibbiano.
Lì l’infezione sta evolvendo abbastanza. Come ospedali sono efficienti e previdenti, ma hanno le aziende agricole. Lì non ci si può fermare, le mucche vanno accudite, il latte va lavorato.
Chissà se anche le donazioni del sangue sono ancora affollate come mi è capitato di vedere qualche anno fa. Non si circolava solo perché era il giorno della donazione.  Immagino anche che siano più che mai attivi i volontari della croce verde e quelli  dell’Auser, che da subito sono a disposizione degli anziani, anche perché il Centro Diurno è ovviamente chiuso.  E  come non ripensare a quella triste vicenda “parliamo di Bibbiano”! Una giovane parente mi diceva che a votazioni concluse non se ne parla più. Mi dice anche che quella gran folla delle sardine a fine campagna elettorale li ha commossi fino alle lacrime. Ora al Comune vanno avanti col loro apprezzatissimo sindaco Andrea, lavorando anche a distanza e a turno, ma serenamente e coraggiosamente.
E qui mi fermo.
Tanto per annotare come da qui, quartiere romano di periferia, settimo piano, nonna ultranovantenne, appare questa specie di guerra.  Una guerra che con l’altra durissima e lunga che ricordo bene, ha in comune solo i morti e la grande fortissima voglia di uscirne, di vederla finita e dimenticarla..

I ragazzi nel carrello!

Da non credere. Ancora un ragazzino che muore nel carrello di un aereo. Un altro!
 E’ stato  l’8 gennaio 2020. Proveniente  dalla Costa D’Avorio, nemmeno un po’ vestito, il cadavere di  un quattordicenne viene trovato a Parigi in quel tragico pertugio.  Si chiamava Ani Guibahi Laurent Barthelemy.  Sperava nell’Europa. Fuggiva dal buio di un futuro e dal dolore  di un presente.
 Certamente non sapeva dei “nostri” due ragazzini trovati morti  a Bruxelles  anch’essi nel vano del carrello di atterraggio di un Airbus.
Era il 28 luglio 1999. Venivano   dalla Guinea, avevano 15 e 14 anni,  si chiamavano Yaguine Koita e Fodè Tounkara.
Ho detto “nostri” due ragazzini.
Nostri perché proprio qui, tra questi palazzi, Roma Cinecittà,  il giardino è intitolato a quei due adolescenti.  Che la storia si ripeta a così grande distanza è veramente terribile.
Nostri perché è dal  2006 che inizia questa storia. Avevamo un attivissimo comitato di quartiere, che tra l’altro ha ottenuto la inedificabilità del grande Pratone di Torre Spaccata . Nel gennaio di quell’anno abbiamo  proposto di intitolare il giardino ai due sfortunati e coraggiosi ragazzi.  La scelta considerava la natura del giardino che ha  una bella area giochi e la vicinanza di ben tre scuole.
Dal 2 gennaio 2006, data della lettera di proposta,  si arriva alla risposta del 5 aprile 2006, dipartimento toponomastica, protocollo 2006/11374, che comunica il parere favorevole alla intitolazione.
Passano ancora molti anni prima che il giardino abbia una targa, una cerimonia di inaugurazione e una lapide esplicativa di ricordo.  In mezzo ci sono stati tutti i cambi di gestione del Comune, la fine del comitato di quartiere e le vicende politiche in Circoscrizione Cinecittà Don Bosco.
Soltanto nella primavera del 2019 è stata messa la targa e finalmente nel novembre è stata fatta una modesta inaugurazione con l’aggiunta di una  lapide nell’aiuola.
Questa  lunghissima storia burocratica è veramente inquietante e  rende ancora più acuta la commozione per questi episodi.  In più c’è da riflettere su quanto sia lunga la sofferenza di quei popoli e quanto tragica la storia delle migrazioni, fenomeno in pericolo di aggravamento poiché alle storiche cause economiche sembra aggiungersi il teatro odierno di conflitti e addirittura di guerre.
Anche guardare la cartina dei due paesi, la Guinea e la Costa D’Avorio.
Il mondo è grande e grandi le sue sofferenze. Quelle delle sue genti, quelle del clima e quelle delle persone inadeguate  o pericolose che stanno al comando.
Sarebbe proprio il caso di diventare tutti, ma proprio tutti, delle guizzanti arrabbiate e consapevoli sardine per pretendere un deciso rinsavimento e un cambio di rotta.

Nella lapide è riportata una frase della bellissima lettera “ai signori dell’Europa” trovata in tasca ai due ragazzi.

Un bel sorriso, i giovanissimi

In questi ultimi anni la passione politica ci ha dato facce tristi, oppure corrucciate o deluse, a volte arrabbiate altre perplesse oppure dure e speranzose. Ma un sorriso, un bel sorriso ce l ‘ha strappato soltanto  la parola “sardine” appiccicata a tante facce giovani, addirittura giovanissime. Grazie di questo sorriso, ragazzi usciti dal silenzio. E che in silenzio dite di più che con mille parole.

Ora, dopo un mese dal primo bellissimo stupore, possiamo vedere anche l’anima di queste guizzanti sardine. C’è l’antifascismo, c’è la Costituzione, c’è il problematico presente.  Qui non vale solo il ricordo, la memoria, la condanna di un esecrabile passato.  Qui c’è il presente, con i suoi pericoli, le sue ombre, le sue barriere.
I ragazzi non vogliono barriere.
I ragazzi imparano le lingue e vogliono il mondo.
I ragazzi ci giudicano e vogliono essere migliori di noi che siamo il passato.
Come il mio giovanissimo amico di Milano,  Lorenzo, che più di un anno fa mi ha scritto perchè voleva preparare la “tesina” della sua terza media sulla Resistenza.  Come mi abbia trovato, non lo so. Certamente in rete. Non compaiono mai genitori o insegnanti. Ha trovato in ebook il mio libro, ha preparato la tesi, me l’ha mandata con il giudizio lusinghiero dei suoi professori. Nel frattempo, specie attorno al 25 aprile mi ha sempre  inviato saluti e pensieri.  Ora credo abbia quindici anni e frequenta un Istituto Tecnico Industriale, il “Primo Levi” di Bollate, indirizzo chimico biologico.
Mi aveva preannunciato che con la sua classe sarebbe andato alla marcia in favore di Liliana Segre.  E ora guardate la foto che mi ha mandato e che mi ha autorizzato a pubblicare! Lui probabilmente è un capo, un trascinatore, ma i suoi compagni non sono da meno coinvolti. Mi ha mandato anche  una pagina de “il giorno” del 11 dicembre,  dove c’è un bel resoconto di Giulia Bonazzi che giustamente parla anche  di loro.
Ecco chi ci consola e ci fa sorridere:  i giovanissimi, sardine o non solo sardine.
Come chiedeva Rodari a un certo babbo natale.Se non puoi darmi niente, dammi una faccia allegra solamente !
Per ora ci basterà.

Giornata di accoglienza per le matricole di Scienze della Formazione primaria a Roma Tre

Carissimi, se ne avete tempo e voglia, potete ascoltare qualcosa.

L’aula magna era gremita, le ragazze e i ragazzi hanno seguito la mia testimonianza con grandissima attenzione, il prof, Lorenzo Cantatore ha indicato la possibilità  di visionare i documenti del nostro lavoro presso il MusEd.
La cara Francesca Borruso che ha incarichi sia nel dipartimento che nel MusEd è stata protagonista e promotrice. Tra i nuovi amici ora posso contare anche il prof Fabio Bocci, che è il coordinatore del dipartimento.
Cosa volere di più?
C’è solo da augurare che anche in Italia la scuola venga considerata una priorità anche finanziariamente, ma soprattutto come istituzione fondamentale del vivere civile.

Le capitane. Tante, tantissime!

Non c’è solo Carola. Le capitane sono tante,  tantissime.

Una bella schiera l’ ho incontrata martedì 2 luglio a Roma. Vedete la foto di gruppo, scattata  alla fine dell’incontro. Soprattutto donne, giovani, sorridenti, motivate. Sono le ragazze di Save the Children di Roma e dintorni, quelle che si danno da fare per aiutare i bambini, qui e nel resto del mondo. L’organizzazione, la più grande del pianeta, ha cent’anni di vita. In Italia qualche anno di meno, ma ha la giovinezza del fare, del concreto, del coraggio. Salvare i bambini, salvarne il più possibile. Di qualsiasi parte, di qualsiasi dolore o bisogno, di qualsiasi colore o percorso.
Dopo la fine della prima guerra mondiale, la fondatrice, l’inglese Eglantyne Jebb, cercava di salvare dalla morte per fame vere folle di bambini dei paesi  usciti sconfitti , penalizzati dalle brutali condizioni di resa. Studiando la storia non si parla quasi mai del blocco imposto a Germania e paesi centro europei che negava qualsiasi rifornimento alimentare, per cui morivano letteralmente di fame i più poveri e soprattutto i bambini.  Tantissimi bambini.  Testimonianze agghiaccianti, fotografie terribili.  Erano i bambini del nemico !  I bambini dei vinti!
Prime nell’impegno un gruppo di donne inglesi benestanti, alcuni uomini illustri e motivati. Difficoltà d’ogni genere,   la più dura  per me, è quella di chi rifiutava e obiettava ” sono i figli del nemico che tra vent’anni ci faranno di nuovo la guerra”.
Ecco il punto. Anche i figli del nemico vanno salvati.
Io voglio aggiungere: anche i nemici vanno salvati. Non solo per umanità. Non per buonismo. Vanno salvati  per ideale laico, per ideale civile e per chiaroveggenza politica.  Sì, per ideale politico, se si vuole che i figli del nemico e il nemico stesso non siano più nemici domani, o  tra un anno o cinque anni o venti.
Ecco il lavoro difficile, delle tante capitane di oggi,  Quelle sulle navi e quelle nelle strade, negli uffici, nelle scuole, in  campagna e in città. Intanto quelle di questa grande Save the Children,  in Italia e negli altri 125 paesi del mondo e soprattutto dove si soffre di più, come in Yemen e negli altri troppi luoghi dove  la guerra,le guerre, ancora devastano e distruggono, oggi, adesso,   con scientifica intelligentissima crudeltà.
E’ un discorso complesso e difficile.  Anche Emergency e Medici senza frontiere soccorrono senza guardare le divise. Secondo me sono una goccia nel mare anche se quella goccia apre o dovrebbe aprire le coscienze.  La sostanza del problema sta nell’ottenere in concreto la cancellazione di ogni tipo di guerra .
Essere pacifisti è una utopia. Troppe fabbriche  producono armi. Troppi cervelli inventano nuove meraviglie tecnologiche direttamente o indirettamente utili alle guerre. Troppo denaro, insomma!   E’ probabile o addirittura certo che i combattenti per la pace siano dei sognatori fuori dalla realtà, utopisti destinati all’insuccesso.
 Invece no,  Perché si deve lottare. Anche se il successo sembra irraggiungibile. Bisogna lottare per avvicinarlo quel traguardo. E perchè è giusto per il genere umano e per il pianeta.
Quelle donne inglesi che con Eglantyne creavano il Save the Children potevano pensare che il traguardo della parità dei diritti tra uomo e donna fosse lontanissimo, forse impossibile, cioè un bel sogno o una bella utopia. Sono passati soltanto cento anni e in molte parti del mondo ci si è quasi arrivati. Tanto che ci sono le capitane Carola, le presidenti europee, le ministre, le banchiere,le soldatesse, le scienziate, le astronaute.
Per l’ideale della pace i problemi sono tanti e tutti diversi. I problemi delle disuguaglianze e della miseria, altrettanto. Non si raggiungono con atti insensati come nuove Bastiglie o anni di piombo. Ci si può arrivare solo col lavoro costante e coraggioso delle tante capitane o dei tanti combattenti che avanzano a piccoli passi con umiltà, serenità, e coraggio.
Stesso discorso per chi lotta contro la fame, per chi vuole salvare i bambini. Sarà  impossibile salvarli tutti, ma sarebbe imperdonabile non cercare di salvarne  il più  possibile. Sono l’umanità di domani, il popolo del mondo che dovrà continuare il percorso della conquista della pace e della più giusta distribuzione delle ricchezze.
Anche  la distribuzione delle ricchezze  in modo più equilibrato e più giusto per ora è solo Utopia.,  Ma si deve pur cominciare se vogliamo che l’umanità faccia una nuova epocale mutazione. Almeno che ci si provi, accogliendo i disperati e inventando soluzioni.
Che sia Bronte o le badanti o i sik nelle stalle della pianura padana. Non nei centri-prigioni. non nel condannarli in mare per giorni con il grido”non ti vogliamo” “sei il nemico”!
Da quel nuovo essere umano arrivato pieno di illusioni e di speranza che dopo tanto divieto non trova né il pezzo di pane  e nemmeno il sorso d’acqua ci possiamo aspettare amicizia? Ci possiamo aspettare rispetto? O osservanza delle nostre regole?
E’ già tanto se, grazie alle nostre tante capitane e ai tanti veri capitani non  diventano subito nostri nemici.
Accanto alle capitane, per fortuna ci sono anche i coraggiosi, che possiamo  anche chiamare capitani. O solo uomini o ragazzi coraggiosi.
C’è ancora bisogno di coraggio.  I coraggiosi di oggi sono quelli che per aiutare gli ultimi rischiano linciaggi, offese e guai  E quelli  che divulgano verità. Come il giovane Federico Ruffo che vedete nella foto, che mi intervistava. E’ il giornalista di RAITRE, che per una veritiera inchiesta sulle tifoserie violente, ha ricevuto non solo minacce ma attentati incendiari.
Onore e grazie a voi tutti e tutte, capitani coraggiosi, combattenti delle guerre di oggi.

Essere dinosauri, forse

Sentirsi l’ultimo dinosauro in via di estinzione può essere eccitante, divertente oppure tragico. Noi ex partigiani combattenti stiamo tutti per andarcene, qualcuno con la mente se ne è già andato.
Questo pensiero come premessa al racconto della mia visita ad una scuola di Roma-periferia, l’ Istituto ITIS “Verne-Magellano” di Acilia. Chi non lo sapesse, si tratta di una borgata o quartiere non lontano da Ostia.
La scuola grande, non bellissima ma funzionale, che emerge in un ambiente verde tutto di casette piccole e dignitose, stradine quasi campagnole, da traffico familiare. Forse non è un quartiere ma nemmeno una borgata. E’ Acilia, una delle tante variegate fette o mosaico di ciò che chiamiamo Roma.
Dentro la scuola, una vivacità e una attenzione da non credere.
Potete guardare le foto, che forse raccontano più delle parole. Mi è stato riferito che il giorno dopo un ragazzo di quinta ha detto che per lui è stata la lezione più interessante che ha mai avuto. Spero sia vero. In ogni caso è stata sicuramente una lezione diversa.
Ho risposto a tutte le domande di ragazze e ragazzi, mi sono collegata al racconto della dirigente Patrizia Sciarma che ha raccontato di un prete suo conterraneo marchigiano trucidato dai tedeschi, ho risposto sulle paure sui momenti tragici, su cosa in concreto si faceva in pianura e anche in montagna. Ho ricordato il mio prete partigiano Pasquino Borghi fucilato alla schiena assieme al mio comandante Angelo Zanti comunista. E non so quanti altri racconti delle mie compagne arrestate torturate e stuprate, Delle pur presenti allegrie, delle storie d’amore di quella generazione vissuta in tempi così neri e disgraziati.
Grazie alla cara Romina Impera, alla intraprendente e dolce Chiara Rovan e alle nuove amiche insegnanti autrici e protagoniste dell’incontro di memoria. Vi hanno inserito interessanti brevi filmati, qualche lettura e immagini in video. Il tutto,per ricordare un’epoca che sembra lontana ma che è all’origine del nostro presente e per compensare una scarsità di notizie e nozioni. Sono state due ore effervescenti, in una grande aula auditorio, tanta gioventù proiettata a professioni moderne, turistico, sanitario, linguistico, industriale. Ragazzi cittadini d’Europa e del mondo, sia per provenienza concreta sia per mentalità nuova, aperta ad un mondo che non ha confini . Lezione ancora più importante in questi giorni, che ci vedono impegnati a frenare e contenere quei tragici rumorosi e violenti drappelli che osano invocare nuovi confini e nuove esclusioni.

Perle all’indietro

(da Agenzia Dire)

Attorno al 25 aprile emergono delle divertenti perle all’indietro. Mi ero dimenticata della avveniristica proposta di ripristinare la leva obbligatoria.  Con la scusa di levare dalla strada i troppi giovani nullafacenti, perché demotivati o disoccupati.

Al contempo mi viene agli occhi una scena. Il 25 aprile al Quirinale il nostro Presidente ha onorato di medaglia d’oro per la Resistenza un bel gruppo di Comuni italiani, grandi e piccoli, tra i quali Roma. Meritatissimo, il riconoscimento alla resistenza romana, perchè vi si è combattuto veramente e non solo a porta San Paolo o via Rasella, ma alla Montagnola, a Valle Aurelia, a Monteverde, a Garbatella, a san Lorenzo, poi nelle borgate Quadraro Centocelle Quarticciolo, e tutto attorno, fino ai Castelli.
A prendere le medaglie erano presenti i sindaci.  Per Roma, giustamente era presente la Raggi.  Ed ecco la mia visione, che in un certo senso mi fa ancora sorridere. C’è il Presidente, col suo mezzo sorriso, che è l’espressione di uno sforzo istituzionale. Vorrebbe sorridere a tutto tondo, ma il Presidente  ha un obbligo di riservatezza o rispetto della forma. Non riesce del tutto ad essere solenne. Resta umano, si concede e ci concede quel prezioso piccolo sorriso.
Ma non è lui che consegna le medaglie e le unisce agli stendardi dei Comuni. E’ un compito che spetta al Ministro della Difesa, che è una donna!  Ancora una donna ministro della difesa, una donna che comanda un esercito. Dopo Roberta Pinotti, Elisabetta Trenta.
Se me l’avessero detto in quell’esaltante 25 aprile 1945 o anni limitrofi, non ci avrei creduto. Una donna che guida i soldati. E’ vero che dicevamo che se le donne fossero state al comando nel mondo non ci sarebbero state più guerre, ma questo era illusione. Ci sono anche le donne nemiche delle donne e della pace.
Ritorno a quella scena. Una donna ministro della Difesa e una donna sindaco della città capitale e città medaglia d’oro per la Resistenza. E penso alle tante donne che hanno fatto la resistenza a Roma, la Carla Capponi, la Lucia Ottobrini, la Marisa Musu, la Teresa Regard, la Maria Michetti, la Marisa Rodano, che sono quelle che conosco io, senza contare le tante altre.  E penso al mio attestato di combattente. Al Distretto Militare di Modena, il dattilografo che l’ha compilato, era tanto abituato a scrivere le qualifiche al maschile, che mi ha trasformato in “partigianO” combattente.  Impensabile, forse, il termine o il  concetto “partigiana combattente”!
Chiusa la parentesi, ritorno alla proposta di ripristinare la leva obbligatoria. Cara nostalgica immagine della sacrosanta “naia”! Tutti in divisa, tutti con un fucile a imparare a difendere la Patria!
Per fortuna, la donna che è Ministro della difesa, ha prontamente ribattuto che oggi l’esercito può essere composto soltanto da personale altamente qualificato. Cioè gente con competenze, con cultura, con preparazione alla tecnologia.
Quando mio padre è stato chiamato, diciottenne, alla prima guerra mondiale, non aveva gran che da imparare. Se c’era un fucile era facile caricare e sparare. Una bomba da lanciare, una baionetta da infilzare alla pancia del nemico. Non serve saper leggere ne’ scrivere. Tant’è vero che mio padre è stato promosso sergente solo perchè era l’unico che sapeva leggere e scrivere.
La proposta di ritornare alla leva obbligatoria è cascata un po’ nel dimenticatoio, anche perchè ridicola.  Ma è un segnale, la spia di un pensiero all’indietro, come sono all’indietro tante altre allucinanti proposte di cui ho già parlato. Non mi meraviglierei se ritornasse fuori il ripristino della pena di morte.
Sapere che siamo in campagna elettorale per l’Europa, queste perle all’indietro dovrebbero far riflettere.
E si dovrebbe ritornare a proposte vere per veri passi avanti in Europa e quindi in Italia.Per esempio la bellissima proposta di un servizio civile europeo,  forse obbligatorio o in ogni caso molto agevolato. Penso ai miei nipoti, che fanno volontariato. Penso ad un servizio civile per aiutare e collaborare, un servizio civile che diventa anche scuola, cultura, educazione, conoscenza. Alcuni mesi, vicino o lontano, ma in quella Patria nostra grande che è l’Europa. Essere europei è molto di più che essere soltanto italiani. Se poi si riuscisse ad essere cittadini del mondo sarebbe ancora meglio. Un augurio per i nipoti.

Attorno al 25 aprile

Che strana atmosfera, in queste settimane.  Ricordi di resistenza e di 25 aprile, campagna elettorale per l’Europa. discorsi e fatti  addirittura incredibili.

Come la dichiarazione del “gran-capo” di Casa Pound che dice :”fuori dall’Europa, fuori dall’Euro, noi forti e padroni in casa nostra!”  Quel noi che loro si definiscono i fascisti del terzo millennio!  Un millennio all’indietro, dove non c’è la globalizzazione, le nuove tecnologie, i nuovi problemi ambientali, i nuovi sentimenti dei giovani che studiano e si sentono cittadini europei e cittadini del mondo!
Vicino a casa mia c’è una bella scritta sul muro di un liceo: ” Nessun confine, solo orizzonti”.
I confini e il ritorno indietro li sintetizza bene  l’agitatissimo ministro dell’interno. Proposte addirittura allucinanti:  riaprire le case di tolleranza, prevedere la castrazione chimica, dare a tutti licenza di sparare per presunta difesa personale, prima gli italiani contro gli invasori straccioni da tener fuori con il filo spinato e i porti chiusi. E da ultimo, ciliegina sulla torta, la proposta che a scuola sia reso obbligatorio il grembiule!  Ecco come si risolvono i problemi della scuola, cioè della formazione dei nuovi cittadini:  Il grembiule obbligatorio, come anticipazione della divisa obbligatoria?  Quando nella mia giovinezza si andava in divisa alle esercitazioni del sabato fascista ad esaltarsi coi fucilini di legno?
E nessuno si è indignato a quella bella frase ” molti nemici molto onore?”
Sento che si vuole il trionfo dell’ignoranza, della dimenticanza, della cattiveria. Per pescare simpatie  e votii tra i nostalgici  del “si stava meglio quando si stava peggio” e i disinformati del “Mussolini che ha fatto cose buone”.  Cioè si vuole cogliere il frutto della mancata istruzione o informazione storica. Nelle scuole nel dopoguerra, non si è mai insegnata la storia dell’ultima guerra e la verità sociale del fascismo.  Si stringe la mascella, si mettono divise e pugni sui fianchi.  Per mostrare un inesistente coraggio.
Coraggio e forza sono percepiti come valori positivi, ammirevoli, necessari.
 Invece non ci vuole nessun coraggio a dire “non ti voglio”, “fuori da casa mia”, Nessun coraggio e nessun cervello. E’ sufficiente la cattiveria, l’odio, il rifiuto cieco.   Il coraggio è  riflettere,  cercare soluzioni  cercare di capire.  Quel coraggio sarebbe vera   forza. La cattiveria è solamente debolezza, rinuncia ad essere umani. ritorno all’uomo delle caverne.
Creare paura e servirsi della paura . Creare odio e dare le armi a questo odio. Come ha fatto Hitler.
Non  ho voluto chiedermi se le opposizioni combattono abbastanza. Non ne sento la sufficiente forza. Forse perché non se ne parla. In TV vedo tante facce nuove e temo che questi nuovi arrivati al comando, abbiano abbondantemente occupato poltrone e strapuntini, dopo aver tanto tuonato contro gli altri.  Ho voluto chiedermi se potevo io, fare qualcosa. Non posso molto, per forze e per età. Posso però mettere a disposizione le mie riflessioni, in questo blog così esiguo. Sarà poco, ma i tanti “poco” potranno fare “abbastanza”.

Speranza

(questa lettera è stata pubblicata da Sergio Staino sul suo blog. La riporto anche qui).

Carissimo Sergio,

 ho letto  e riletto la lunga riflessione di Veltroni su Repubblica di ieri.  Oggi  c’è il commento di Scalfari. Io, che sono del secolo scorso e che come Scalfari ho la testa bianca, non  posso fare altro che raccontare le mie paure e le mie speranze. Anzi, mi permetto di avanzare dei suggerimenti, sperando di non essere considerata un po’ svanita.
La deriva di destra dei nostri neogoveranti non è soltanto preoccupante. Deve far paura. Nuota nel grande mare della disinformazione e dell’egoismo, ben nutrito da vent’anni di televisione berlusconiana vuota e superficiale.  Ci vuole poco a cadere fuori dalla democrazia se passa il concetto che le regole non valgono più, ne’ per chi governa ne’ per il cittadino.  Le regole dell’Europa o quelle della Costituzione.
L’Europa è stata la conquista più importante del novecento, per la pace e per le frontiere aperte, per i nostri ragazzi che ci vanno a studiare e a lavorare, per il turismo e per l’economia che può competere con gli altri continenti in epoca di globalismo.
Che ci siano delle criticità e delle cose da cambiare è innegabile. Sarebbe troppo bello che non ci fossero visioni diverse nate da  realtà diverse e storie diverse. Ma i traguardi alti non sono mai facili da raggiungere, sia nel pubblico che nel privato.  Ci sarebbe solo da andare avanti con determinazione e pazienza.
Nel nostro paese la caduta dei valori e la cattiveria xenofoba è tangibile e forse crescente. Credo che molti, come me, ne siano preoccupati .
Non basta preoccuparsi, bisogna reagire.
Che Veltroni si sia espresso  per  “amore della propria comunità e per il proprio Paese”, come conclude lui, secondo me significa che vuole combattere ancora. Già ieri pensavo di augurarmi che accanto a lui scendessero altri.  Oggi Scalfari mi toglie i nomi dalla penna. Anch’io pensavo a Prodi, Gentiloni, Minniti. Lui ci mette Zanda che conosco un po’ meno. Io ci vorrei tanti altri, anche quelli ai quali qualche rimprovero va fatto, come Fassino, Rutelli, Enrico Letta, Delrio.
Direte: sono tutti vecchi, la vecchia classe dirigente !  Sì, certo, a qualcuno di loro dobbiamo perdonare qualcosa o molto. Tanti di loro debbono metter da parte vecchi dolori o risentimenti e dare quello che ancora possono dare.  Ma vorrei che  ognuno di loro portasse alla lotta qualcuno dei giovani,  pescando e stimolando tra i loro allievi universitari, ragazzi  e ragazze,  sindaci e operatori culurali, ricercatori, scrittori.
Ci vorrei nella squadra pro democrazia e pro Europa, accanto al sindaco di Riace,  anche i Cacciari e i Saviano, che si mettano la mano sul cuore e  vengano a sporcarsele le mani, a mettersi in gioco, a dimostrare che anche essendo diversi ci si può unire. Che non basta discutere o criticare.  Ora è il momento di fare.
Tra i giovani da considerare, voglio suggerire Elia Minari, giovane combattente e scrittore che ha indagato e denunciato la mafia nelle terre reggiane e sta girando per l’Italia a combattere la sua battaglia. L’ho  incontrato a Bibbiano, insieme al Procuratore di Reggio Calabria Gratteri.
E ci vorrei tante donne, non solo le ultime che hanno lavorato bene nei vari governi e in Europa, ma quelle del sindacato come Carla Cantone o della scienza come Elena Cattaneo o Lucia Votano,e la tenace Ilaria Cucchi    o le scrittrici come la Maraini o giornaliste  come Concita De Gregorio, o registe come la Comencini.
La lista dovrebbe essere lunga e variegata. Una lista di persone diversissime, ma unite contro un pericolo comune e incombente. Un po’ come abbiamo fatto noi durante la guerra partigiana.  A dimostrare che le differenze si possono superare se il traguardo è condiviso.
Un abbraccio

 

bullismo e fascismo

La cronaca da un po’ di tempo racconta episodi raccapriccianti di bullismo. Che molto spesso avvengono nelle scuole.  Le mie amiche insegnanti lamentano atmosfere pesanti e comportamenti al limite. Una cara partigiana che ultimamente è andata  a parlare tanto  di memoria agli studenti , mi racconta che c’è sempre un gruppo, a volte numeroso, che non solo non applaude, ma motteggia contrastando e dichiarandosi fascista.
Credo che tra i due atteggiamenti ci sia uno stretto legame.
Perchè il bullismo è una forma di fascismo. Ne ha tutte le caratteristiche e tutti i sentimenti profondi.
Prima di tutto il non accettare le differenze.  Le vittime sono sempre in qualche modo caratterizzate da una diversità. A volte per un paio di calzoni rosa, a volte perché troppo bravi e primi della classe. a volte per qualche imperfezione.
E  tutti sappiamo quanto si sia accanito il fascismo verso tante categorie di diversi.
Poi la prepotenza che può arrivare alla violenza. In sostanza la presunzione di essere superiori e di avere il diritto di colpire, di umiliare.
Qui  si sente l’eco della razza superiore che deve dominare su tutte le altre con la violenza della guerra.
Nel bullismo c ‘è a volte la tendenza ad agire in gruppo, dove il più sfrontato e violento raccoglie ammirazione e consenso.
E qui ricordiamo le squadracce coi manganelli e le varie “bande Carità”.
Nella  realtà di oggi, anche senza ricordare la storia,  troviamo un po’ dappertutto il concime per la  fioritura velenosa del bullismo.
La  violenza negli stadi, dove ricompare l’odio agli ebrei. Le grida di personaggi politici e di gente varia che ha paura degli immigrati e li descrive come pericolosi. L’odio verso gli zingari è addirittura antico. Il fastidio verso il buonismo trattato da ignavia o debolezza o falsità.
Il più pericoloso di tutti è il sentirsi al di sopra di ogni regola, di ogni legge, di ogni buona abitudine.
In testa ci sono tutti quelli che del “no” si sono fatti un vanto e un ideale. No a tutto. No agli scienziati sui vaccini o sulle cure oncologiche. No a chi ha progettato una ferrovia o un oleodotto.  No a un inceneritore, no a tutto.  E tutti questi no è perchè io sono sopra a tutto, ne so più di tutti, non credo a niente, perchè tutti mi vogliono fare fesso. Non credo ai medici perchè sono venduti alle industrie farmaceutiche. Butto l’immondizia dove voglio e non la separo perchè poi loro la rimettono tutta insieme.  Parcheggio dove mi è comodo, mi diverto a fare fesso gli altri e soprattutto a prendermela coi politici.  Se sono bravi e  onesti ancora di più, perchè tanto non ci credo. E mi diverto a scansare gli obblighi le tasse e i contributi.
Una bella foresta di cattivi esempi  per i ragazzi così fragili e spesso così soli.
Come se ne esce non lo so.
Ci vorrebbero dei buoni esempi. Ci vorrebbe che le belle notizie facessero notizia. Che nella scuola e fuori della scuola si parlasse anche dei doveri per poter pretendere dei diritti.
E che  in questi giorni, che sono quasi alla fine dell’anno scolastico, non  ci fosse, così insistito e fastidioso, lo spettacolo di questi cosiddetti vincitori delle elezioni, finti disinteressati alle poltrone ma veri disinteressati  al dialogo e alla logica.

A proposito di parolacce

Qualche giorno fa ho protestato con l’autore di uno scritto su Facebook rimproverandolo di concludere col solito vaffa uno scritto lieve e condivisibile sull’età e il tempo che passa. Lui  mi ha risposto che voleva essere ironico invitandomi a non essere troppo seriosa.

Invece non è per seriosità che non sopporto il dilagare di questo vaffa, che trovo ormai dappertutto, quasi diventato una moda.
Se si vuole essere ironici bisognerebbe ispirarsi ai grandi che le parolacce se le inventavano, ricorrendo il meno possibile a quelle già in uso. Pensiamo a Totò, a Sordi, a Verdone, a Proietti. E ne dimentico molti altri.
Le parolacce le abbiamo in abbondanza nella nostra lingua parlata e nella nostra realtà. E credo che tutti ce ne siamo serviti. In un momento di stizza, di delusione o di fretta.  Sfugge la parolaccia appunto per ironia, per riassunto linguistico e a volte perchè è più efficace di un ragionamento.
Ma la parolaccia ci impoverisce.
Troppo ripetuta e sempre uguale ci impoverisce. Impoverisce  perchè esclude una riflessione, non permette una critica, non arriva a nessuna conclusione o proposta o speranza.  Chiude e basta. Offende e basta.
Avrete capito che la mia allergia a questo vaffa non deriva soltanto da un gusto linguistico, ma si radoppia a causa dei cinquestelle, che nascono proprio da una parolaccia.
Siamo in procinto di avere al governo dell’Italia, il paese del dolce stil novo, una squadra di persone che ha come bandiera, come collante e come progetto, una parolaccia, un vaffa!
Ed è raggelante che tanta gente abbia seguito quel vaffa agganciato al tutto e al contrario di tutto, senza una logica, senza una riflessione, senza un ideale.
Ideale? ecco una parola sconosciuta dimenticata, invecchiata!
Invece vaffa è moderno, è fico, è giovane!
Vorrei che qualche teorico di psicologia delle masse mi spiegasse questo fenomeno di regressione culturale.
O forse di regressione politica.
Non ho mai avuto incarichi politici, ma ho seguito sempre la politica e mi ci sono appassionata. Non poteva essere altrimenti, viste le mie origini e la mia storia. Questo approdo politico tanto negativo sicuramente nasce  da molti errori o molte mancanze. Forse nasce anche da qualche modernità  che ha influito in negativo.
Questa storia della rete, di tutte le panzane che vi circolano, dei ghetti che riuescono a formare. Su facebook ognuno ha il suo gruppo, quindi ha un cerchio omogeneo e di parte, nel quale faticano ad entrare smentite o notizie contrarie. Nel mio caso, non so perchè, ho contatti di ogni tipo. Soltanto perchè non lo so fare. non riesco a cancellare persone che non mi piacciono e con le quali non vorrei avere più niente da dire.  Forse è per questa realtà di  gruppi omogenei  che non arriva l’informazione contraria.  Per esempio del fatto che anche i precedenti presidenti di Camera e Senato avevano rinunciato ai benefici aggiuntivi.  Forse si spiega  come mai non arrivano le notizie serie e scientifiche sui vaccini o sull’aiuto in atto ai senza lavoro. L’opinione pubblica ormai non la fanno più nè i giornali nè la televisione. La tanto mitizzata rete in questi tempi è sotto esame per gli effetti oscuri in campo internazionale-elettorale.  Ed è sotto esame proprio per le falsità, le bufale, le offese, i pericoli che può nascondere.
Vorrei tanto che rallentasse la moda della parolaccia tappa-tutto.
 Quel vaffa vorrei non sentirlo più.  Tra l’altro è brutto, è povero, è poco fantasioso. I nostri dialetti e persino la nostra letteratura hanno un elenco di parolacce più colorito, più variegato, molto spesso purtroppo  più volgare.  Se vi si ricorre in momenti estremi quindi pochissime volte, le salveremo per quanto possibile dal logoramento e dalla perdita di efficacia. Le salveremo come costume, come ultima zattera linguistica, come storia e come arma gratuita e poco letale a disposizione del popolo minuto. Mai e poi mai come parola d’ordine politica.

Fascismi

7 Gennaio 2018 – A Roma, via Tuscolana

Ho letto  il resoconto di Adriano Sofri sulla marcia di Macerata, un resoconto così felicemente esaltato. Lui non ha visto niente di negativo. Che bello! Ma bastava sapere che i centri sociali si sarebbero infiltrati e loro avrebbero detto quelle due o tre frasi che i giornalisti avrebbero raccolto ed enfatizzato. I giornalisti di destra non aspettavano altro.
Che fosse giusto o non giusto sfilare non lo so. Ma mi chiedo se in questo modo si aiuta a far comprendere e a combattere il fascismo rinascente.  E  ho delle curiosità e delle domande brucianti.
Per esempio vorrei sapere chi è stato a concedere a Roma il permesso a Forza Nuova o Casa Pound di fare quella sfilata lungo la via Tuscolana, squadroni foltissimi e neri, militarmente al passo dell’oca e ben allineati col saluto romano, traffico bloccato o deviato o impossibile, non so. E’ stato poco dopo ottobre, dopo vietata per fortuna la pretesa marcia dell’anniversario 28 ottobre famoso.
Di questa sfilata possente e impressionante  se ne è parlato pochissimo. Una breve sequenza vista per caso che mi ha fatto rabbbrividire. Una enorme massa di nerboruti, e dentro, credo ci fosse anche lo sparatore di Macerata. Non si trattava forse di propaganda fascista?  E quell’autorità che ha dato il permesso è ancora al suo posto?
Seconda domanda.  E’ possibile che  si consenta a Casa Pound di presentarsi alle elezioni? Crediamo forse che nel parlamento della Repubblica Italiana quel rappresentante farà opera culturale e non si batterà per cancellare alcuni diritti, per affermare la supremazia della razza, visto che si proclama “fascista del terzo millennio”?
Altra domanda, rivolta a tutti quelli, associazioni comprese, che si adornano della qualifica di antifascista.  Visto che c’è finalmente la legge, si è fatto qualcosa per impedire il commercio di tutta la chincaglieria nazi-fascista con stemmi ritratti calendari  distintivi  che si pratica indisturbata in negozi bancarelle e forse porta a porta? C’è ancora quel negozio in piazza a Fiuggi sotto i portici, così caratteristico? Si svolge ancora a Predappio quel turismo della nostalgia fascista? Cosa c’è di nuovo e di vero in quel  museo che dica la verità su cosa è una dittatura e a cosa ci ha portato?
Non ho finito, c’è la cosa più importante.
Cosa si fa nelle scuole per far comprendere in modo obiettivo e sereno cosa significa dittatura e cosa è democrazia?
I programmi di storia sono stati ridotti e sminuiti. Le ore sono poche. Una brava insegnante chiedeva ” Un po’ meno di Assiri e Babilonesi, ma un po’ più di novecento!”
La ex ministra Giannini mi aveva frettolosamente informata che ci stavano pensando. A cosa? A fare come Don Ciotti, che ogni anno agli insegnanti offre tre incontri, a nord centro e sud, per aggiornare e motivare nell’educazione anti-mafia.
Al Ministero, ove la scattante Fedeli si è data molto da fare e dove la zitta-zitta Madia ha portato i nuovi contratti, ci si sta ancora pensando? Quanto  durerà quel pensare? E se nel nuovo parlamento ci saranno anche i CasaPoun, più la truppa Meloni e quella Salvini, gli antifascisti duri e puri cosa potranno sperare? Magari si proclameranno di sinistra, sinistra vera, non centro-sinistra. Faranno i cortei e le sfilate, magari giuste e sacrosante.  E continueranno a pensarci !
   Visto che dovremo votare, pensiamoci noi. Col cuore e con la mente.